Testimone: M. 55 anni*
M. è stato soccorso da l’Aquarius nel bel mezzo del Mediterraneo lo scorso 23 maggio. Questo naufrago pakistano di 55 anni ha una storia singolare. Dopo aver lavorato per un’impresa italiana alla costruzione di una diga, ha percorso le montagne del Pakistan per curare dei bambini malati di poliomelite. Il suo impegno è stato ripagato da numerose minacce di morte dalla parte di chi si opponeva a questo programma governativo di aiuti. Alla fine M. è scappato dal Pakistan ed è finito in Libia, dove si è ritrovato prigioniero di bande armate che gli hanno rubato tutto e l’hanno costretto a scappare di nuovo, in mare. Qualche ora dopo il suo salvataggio, il fotografo di SOS MEDITERRANNEE Kenny Karpov ha raccolto la sua testimonianza.
L’Aquarius fa rotta verso il nord, verso l’Europa. A causa del rombo delle macchine, del rumore delle onde che fendono la prua arancione della nave che l’ha salvato dal mare ed ancora traumatizzato da quello che ha appena vissuto, M., pakistano di 55 anni, non riesce a dormire. Quest’uomo in età matura, dal volto solcato dalle rughe, non avrebbe mai immaginato di trovarsi un giorno in pieno Mediterraneo, a dover sgomitare per guadagnare qualche centimetro in più per potersi stendere e riposare. Ci sono 1004 persone a bordo di l’Aquarius questa sera. 1004 persone soccorse in mare aperto, nel corso di operazioni di salvataggio di una portata senza precedenti per il team di SOS MEDITERRANNEE.
Per far passare il tempo, M. mi racconta la sua storia. Tra qualche ora, sbarcherà in Italia. Uno scherzo del destino, per lui che in Pakistan ha lavorato quasi un anno presso un’impresa italiana. « Cominciai a lavorare come operaio per una grande fabbrica che produceva cemento in Pakistan, poi per un anno ho lavorato per un’impresa italiana ad un cantiere di costruzione di una diga fluviale. Poi nel 2013 sono stato assunto dall’EPA, l’agenzia pakistana di protezione dell’ambiente. Ci occupavamo anche di guarire bambini affetti da poliomelite.» E’ a causa del suo impegno in questo programma umanitario che tutti i suoi problemi sono cominciati. «Cominciai a ricevere minacce di morte per telefono. Erano dei terroristi, volevano che smettessimo di fare quello che stavamo facendo: aiutare le popolazioni locali. Lavoravamo sulle montagne, andavamo di villaggio in villagio e il nostro solo obbiettivo era aiutare le persone e soprattutto i bambini. Non potevo smettere… Non mi lasciai intimidire ».
«Ma un giorno i terroristi ci attaccarono. Ci spararono addosso e due persone morirono. Ebbi paura che il prossimo sarei stato io. Quella sera parlai con uno dei miei amici che lavorava al programma, mi disse che poteva mandarmi a lavorare in Libia. Non stetti a pensarci più di tanto, accettai. Non potevo più lavorare in quelle condizioni. E feci bene: il giorno prima della mia partenza, nel corso della notte, uno dei terroristi mi chiamò e mi disse che se non interrompevo immediatamente quello che stavo facendo, avrebbero preso i miei figli in ostaggio e li avrebbero uccisi. Ho tre bambini, sono con mia moglie in Pakistan. Sono partito nel 2015 ».
Una volta in Libia, condivide un appartamento a Tripoli con alcuni amici pakistani. Grazie a dei contatti riesce a trovare dei lavoretti in dei cantieri che gli permettono a pena di sopravvivere e mettere un pò di soldi da parte. «Ma un giorno, circa 6 mesi dopo il mio arrivo, degli uomini armati fecero irruzione a casa nostra. Presero tutto! Presero i miei soldi, il mio telefono. Dopo fu tutto molto difficile. Ma non mi lasciai abbattere, riuscii a mettere di nuovo un pò di soldi da parte e mi trasferii in un altro quartiere della città. Ma lì ci trovarono di nuovo e ci derubarono, minacciandoci. In Libia non sanno cosa sia un essere umano, hanno delle armi ed uccidono per il gusto di uccidere. L’agente che mi aveva mandato in Libia disse che avrebbe trovato un modo di mandarmi in Europa ».
Il resto, lo lascia alla mia immaginazione. Senza dubbio questo „agente” lo chiamò una sera per dirgli che una barca era pronta a partire per l’Europa. M. non sapeva che quel canotto sul quale si stava imbarcando era destinato ad arrivare da nessuna parte. Quello che successe in mare non se lo ricorda, è troppo stanco, non vuole parlarne. «Non riesco a dormire su questa nave. Penso a mia moglie, ai miei figli. Piango tutte le notti da quando li ho lasciati. Non ho più nemmeno un telefono per chiamarli, non so se stanno bene. Spero di poter fare richiesta d’asilo in Italia, così potranno raggiungermi e potremo finalmente vivere in pace».
(*) nome nascosto
Testimonianza raccolta da: Kenny Karpov
Traduzione: Flavia Citrigno
Foto: Kenny Karpov