Aquarius, marzo 2017
Il 22 febbraio l’equipaggio di SOS MEDITERRANEE ha soccorso nel giro di qualche ora quattro imbarcazioni in difficoltà al largo delle coste libiche. In tutto sono state salvate 394 persone, che sono state condotte in Italia. Una volta a bordo dello Aquarius, ci hanno raccontato la traversata, ma soprattutto l’inferno subito prima di essa, in Libia. I loro racconti si aggiungono all’orrore della scoperta di 74 corpi di immigrati rinvenuti sulla spiaggia di Zawiya, ad est di Tripoli. Nel Mediterraneo, in questi primi mesi del nuovo anno, la situazione sembra più drammatica che mai. Una testimonianza.
Testimone I.
I. indossa i vestiti puliti che ha appena ricevuto nel suo <<rescue kit>>. Il berretto ben calcato sulla testa, si isola dal resto del gruppo. Gli occhi rivolti verso delle imbarcazioni sulle quali lavorano ancora le squadre di soccorso di SOS MEDITERRANEE – la terza e la quarta della giornata – sembra essere immerso nei suoi pensieri. Senza dubbio è ancora sotto lo shock a causa dell’esperienza vissuta, da tutto quello a cui è appena sopravvissuto. La lunga traversata nella notte nera, su un gommone, sul quale si era imbarcato insieme ad altre 90 persone. Sono partiti da Sabratah, ad ovest di Tripoli.
Non ha amici fra i suoi compagni di viaggio, non li conosceva prima. Il suo unico amico, mi racconta, è stato sequestrato in Libia e non è riuscito a ritrovarlo prima di partire. Issouf è molto preoccupato per lui, non ha potuto informare la famiglia del suo compagno di sfortune, è scappato e basta. I. mi mostra la cicatrice che ha sul collo. << Me l’hanno fatta con un coltello, volevano prendere i miei soldi!>>.
La cicatrice, spessa, è proprio all’altezza dell’aorta. Il ragazzo, appena maggiorenne, deve averla proprio scampata bella quel giorno. Mi mostra le sue mani, una delle sue dita è deforme. << Ogni mattina in prigione mi torcevano le mani >> spiega con voce soffocata. << È lì che si è gonfiata. Mi hanno colpito con l’impugnatura di un Kalashnikov >>. Il racconto freddo delle sue sofferenze mi prende di sorpresa. È difficile visualizzare, immaginare, come questo volto dolce ed ancora infantile abbia potuto incassare dei colpi ripetuti, ogni giorno, ancora ed ancora, senza mai vedere la fine del tunnel, durante i sette mesi e tre settimane che è rimasto in Libia.
<< Avevo un solo amico libico, si chiamava Oussama, come lui >> dice indicando con il mento il mediatore culturale di MSF a bordo della Aquarius. << Era libico ma di origini sudanesi. Mi chiese << Perché sei venuto in Libia? Hai fatto un grosso sbaglio, a venire qui! >> racconta I., ripetendo tra sé e sé più volte: << un grosso sbaglio…>>. << Ho cercato di spiegargli che non avevo scelto io, che mi avevano ingannato, forzato ad andare a Tripoli >> prosegue. Il briciolo di gioia che sembra evocargli il ricordo dell’amico non ha prezzo. << Se un giorno avrò un figlio e sarà un maschio, lo chiamerò Oussama >>.
Lo scintillio di speranza sparisce presto dal suo sguardo. << In Libia, dei bambini di 8 o 10 anni ti aggrediscono e colpiscono per strada, davanti gli adulti. Tutto quello che hai, i libici te lo prendono, te lo rubano, e se non gli dai nulla o non hai nulla da dargli, ti uccidono oppure ti rapiscono >>. Mai un momento di pace: se non sono imprigionati o vittime di violenze, gli immigrati africani devono fuggire. << A Gennaio ci sono stati dei combattimenti in un quartiere di Tripoli. Gli Asma Boys contro la polizia. Hanno detto a tutti i neri di andarsene >> continua I. << Ho avuto molta fortuna, sono riuscito a scappare. Ma c’erano forse altre 6000 persone che fuggivano. Alcuni sono stati catturati, hanno riempito degli autobus con dei neri che non sapevano dove andare. E non sappiamo dove siano stati portati >>.
<< In Libia non ci si può fidare di nessuno, non sai se quelli che ti arrestano e ti sbattono in prigione sono la polizia oppure gli Asma Boys >> interviene C., un giovane nigeriano avvolto in una coperta leopardata e che segue la nostra conversazione fin dall’inizio. << A me hanno rotto una gamba colpendomi con dei bastoni, tutti i giorni, per prendermi i soldi, e non c’era nessuno ad aiutarmi, non c’era l’ospedale. Senza dottori la gente muore. Ho visto delle persone morire in prigione, molte >>. Qualche minuto prima, una giovane donna nello shelter raccontava che i cadaveri dei suoi amici erano stati abbandonati accanto a lei. Che i loro corpi si decomponevano accanto al suo materasso.
<< Appena arrivato in Libia, mi hanno sbattuto in prigione. In questa prigione c’erano dei dottori che venivano e portavano da mangiare >> continua C. << Ma i guardiani non lasciavano che le ONG ci dessero da mangiare. Sequestravano tutto il cibo. E a noi ci davano solo la pasta, degli spaghetti bolliti, senza sapore >>. In questa prigione, racconta ancora C., << gli arabi vengono a comprare i neri per farli lavorare. Vendono i neri per mille denari >>. << Quando la guardia costiera libica ci intercetta durante la traversata ci riportano sulla costa, ci dicono che ci riporteranno nel nostro paese. Ma tutto quello che fanno è venderci a qualcun altro >>.
Raggomitolato sotto la scala, I. approva facendo segno con la testa. << Pare che chiuderanno questa rotta fra un mese >> dice. Ne ha sentito parlare in Libia, nei campi, e si preoccupa per tutti gli africani che sono ancora lì. << Penso ai miei amici che sono rimasti lì, ho paura per loro. Mi fa male la testa, ho troppi pensieri >>.
Forse perché la ferita alla mascella gli fa ancora troppo male, I. è uno dei pochi passeggeri della Aquarius a non accennare nemmeno un sorriso poggiando per la prima volta piede in Europa, nel porto di Trapani. Però almeno una volta passati i controlli, potrà finalmente telefonare a sua madre. <> mi confidava la sera precedente, implorandomi di dirgli quanti giorni ancora doveva aspettare prima di telefonarle. << È la mia mamma, soffre troppo al non sapere se sono ancora vivo o se sono morto in mare >>.
Testo: Mathilde Auvillain
Traduzione: Flavia Citrigno
Photo Credits: Marco Panzetti/SOS MEDITERRANEE
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