Skip to main content

Missione a bordo della Ocean Viking | 30 aprile – 9 maggio 2025

di Valeria Taurino

All crew, all crew. Close contact, close contact”

La voce alla radio arriva decisa, ferma, e segna l’inizio di tutto. È la notte tra il 4 e il 5 maggio. Il 5 maggio è una data che porto dentro da sempre: è l’anniversario della morte di mio padre. E ora lo sarà anche per un altro motivo, perché in questo giorno abbiamo salvato 108 vite.

Quella notte, dal ponte sono state avvistate due imbarcazioni instabili e sovraccariche. È un “close contact”: una di quelle situazioni in cui se non sei rapidissimo, perdi tutto.

Sono salita a bordo della Ocean Viking pochi giorni prima, per vivere da vicino quello che il nostro equipaggio affronta ogni giorno. Pensavo di essere preparata, ma la realtà vissuta lì — il ritmo, l’adrenalina, il peso umano — è qualcosa che non si può spiegare, solo vivere.

Nei giorni di navigazione verso l’area delle operazioni, ho fatto tante formazioni per essere pronta: come fare una rianimazione, come trasportare una barella, cosa fare se avvisti un’imbarcazione in difficoltà, cosa fare se vedi una persona in mare e tantissimi altri. E ogni volta pensavo: ma mi ricorderò tutto? E se poi sbaglierò? Lo chiedevo anche, ma tutti mi rassicuravano che non sarei mai stata sola. Quando siamo arrivati in area delle operazioni, la paura più grossa ha iniziato ad essere quella di non sentire l’allarme via radio durante la notte, la chiamata a prepararsi per il soccorso. E invece ormai ero parte della macchina e mi sono mossa come un piccolo ingranaggio.

Quando il Capo Missione ha annunciato il “close contact”, in meno di cinque minuti i soccorritori erano ai RHIB pronti a calarli in mare, i team di assistenza medica e cura (di cui facevo parte) erano ognuno al proprio posto sul ponte pronti a ricevere i naufraghi e Sahar, la mediatrice culturale, la prima che in caso di “close contact” parla ai naufraghi sulle imbarcazioni in avvicinamento, era già a babordo, con tutto il suo equipaggiamento di protezione addosso e il megafono in mano a urlare: “Siamo una nave umanitaria, siete al sicuro, vi salveremo, ma dovete allontanare l’imbarcazione”. Quando i barchini si sono effettivamente allontanati e il pericolo di una collisione con la Ocean Viking è rientrato, i RHIB sono andati a prenderli. A quel punto, Florien ha detto: “Sahar, ora puoi andare a toglierti il pigiama”. Perché Sahar si era letteralmente catapultata giù dal letto, giusto il tempo di indossare caschetto, giubbotto salvagente e stivali da lavoro e poi l’adrenalina ha fatto il resto. Da quel momento, Sahar non si è più fermata.

Io ero deputata a distribuire a tutti i naufraghi il “rescue kit” e spiegare loro che dovevano togliersi i vestiti e metterli in una borsa che gli avrei dato e lavarsi nelle docce (è necessario che eliminino eventuali tracce di carburante che, a contatto con l’acqua di mare, creano ustioni gravissime sulla pelle): il rescue kit contiene proprio un asciugamano, dei vestiti asciutti, uno spazzolino, un dentifricio, dei biscotti proteici e una bottiglietta d’acqua. Il rescue kit è il primo gesto di cura che queste persone ricevono dopo mesi, a volte anni, di torture, violenze e abusi.

Il ponte della cura

A bordo della Ocean Viking, il salvataggio non finisce quando si mette piede sulla nave. Inizia lì, sul ponte, quando si riattiva il respiro. Inizia con Rebecca, Tuuli e Elenor, del team medico, che effettuano le prime valutazioni sanitarie, e con Rita, l’ostetrica, che si occupa delle donne incinte, delle puerpere e dei più piccoli ed è lei che si è presa cura da subito di Zahra, l’unica giovane donna a bordo, e di Naima, la sua bellissima bambina di 11 mesi.

Quando ho visto i volti dei primi naufraghi arrivare a bordo, ho pensato “OK, stanno bene” e poco dopo “OK…sono tanti…” e poi ho smesso di pensare, perché dovevo essere veloce. Erano le 3:50 del mattino. Mi sono fermata verso le 8:30, quando tutti i naufraghi erano puliti, sistemati e al riposo negli shelter. Allora sono finalmente andata in bagno e a lavarmi la faccia e quando mi sono seduta un attimo, ho capito che ero distrutta. Mi sono presa un’ora di riposo, ma non potevo veramente dormire, avevo ancora troppa adrenalina addosso e sapevo che “il viaggio” era appena iniziato.

Nel 2024, la Ocean Viking ha effettuato 1.357 consulti medici. Più della metà dei casi riguardava malattie legate alla scarsa igiene e alla mancanza di servizi sanitari nei luoghi di detenzione. Centinaia di pazienti soffrivano di ustioni, disidratazione, infezioni. 42 sopravvissuti hanno richiesto cure per condizioni legate alla violenza, che riflettono l’entità delle violenze subite nei loro Paesi d’origine o lungo le rotte migratorie. Per 246 casi è stato necessario un rinvio a cure post-sbarco. Due evacuazioni mediche d’urgenza. E questi sono quelli fortunati, perché sono arrivati vivi.

In questa rotazione, in effetti, c’erano una cinquantina di casi medici seri a bordo, e moltissimi erano affetti da scabbia, anche la bimba di 11 mesi aveva la scabbia. Nei giorni insieme, mentre mi raccontavano le loro storie, ho capito perché molti di loro hanno la scabbia. Le condizioni di detenzione in cui stanno per settimane e mesi, sia nelle mani dei trafficanti che nelle prigioni libiche, sono agghiaccianti: ammassati come animali, senza alcuna possibilità di lavarsi, spesso neanche di avere un bagno per i propri bisogni, con ferite dovute alle percosse e alle torture lasciate a infettarsi. La scabbia è il minimo che gli possa venire.

Su quel ponte, la piccola Naima ha mosso i suoi primi passetti incerti. E con la sua ingenuità, ha riso sempre, a tutti. E’ diventata la mascotte della nave. La speranza. Il futuro. Una bambina che ride, mentre intorno a lei si raccolgono uomini e donne che provano a dimenticare.

Porti lontani, politica miope

Dopo il salvataggio, le autorità ci hanno assegnato il porto di Ortona come luogo sicuro per lo sbarco dei naufraghi: a 1.296 Km di distanza. Vale a dire, quattro giorni di inutile navigazione in più per le persone che abbiamo a bordo: per la piccola Naima di 11 mesi, per i 25 minori non accompagnati che sono a bordo con noi, il più piccolo dei quali ha appena 13 anni, per i 47 casi medici che abbiamo identificato, per le 11 vittime di tortura grave tra tutti quelli che hanno subito violenze. Per Hatham che ha gli occhi più tristi del mondo, per Niloy che si prende cura di tutti, per Jama e il suo sorriso che talvolta si spegne, per Ayaan che ha vent’anni ma ne dimostra quaranta dopo aver passato due anni in Libia, per il timidissimo Lokori che fugge dalla guerra.

Questa assegnazione non è frutto della logistica, né della valutazione dell’ordine e della sicurezza nazionale, come vogliono farci credere: questa è solo la spiegazione ufficiale, l’unica che possono dare per giustificare decisioni crudeli, discriminatorie e punitive, adottate in maniera non trasparente e in modo da aggirare i funzionamenti democratici e giudiziari. Questa assegnazione è frutto di una strategia politica precisa, che mira a tenere le navi ONG lontane dalle aree delle operazioni, col duplice scopo di eliminare gli occhi scomodi della società civile sul Mediterraneo centrale e attuare una politica di deterrenza delle partenze basata sulla morte. Il costo di tutto questo si paga in vite umane.

Dalla prima assegnazione di un porto lontano (Ravenna, assegnato proprio alla Ocean Viking a fine dicembre 2022), almeno 4.660 persone hanno perso la vita cercando di attraversare il Mediterraneo centrale. Mentre dal 2014, oltre 36.000 vite sono state strappate a questo mare. E le cifre reali potrebbero essere molto più alte. La rotta del Mediterraneo centrale resta la più letale al mondo. E mentre gli Stati europei si tirano indietro, delegando il controllo delle frontiere a Paesi terzi che non rispettano i diritti umani, sono le ONG a garantire l’unico soccorso possibile.

Ma siamo lasciati soli. Senza un sistema europeo di ricerca e salvataggio, senza un coordinamento efficace, senza riconoscimento. Anzi: veniamo allontanati, ostacolati, criminalizzati, denigrati. Salvare vite viene reso difficile, costoso, pericoloso agli unici attori capaci, disponibili, legittimati e pronti a farlo. A colmare l’assordante vuoto di soccorsi lasciato dagli Stati.

E intanto le persone muoiono. I naufraghi vedono le loro sofferenze prolungarsi prima di essere sbarcati in porti sempre più lontani. E i loro diritti vengono sempre più limitati.

Le storie che porto con me

La vita che ho avuto l’onore di conoscere a bordo della Ocean Viking è il senso di tutto. Jama ha 19 anni, è un ragazzo somalo cresciuto in un campo profughi in Etiopia, è partito perchè in un campo rifugiati non ci sono speranze, non c’è possibilità di trovare lavoro e lui ha altri 8 fratelli e sorelle e la madre è l’unica a prendersi cura di loro. “I want to help my mum. I love her so much”, mi ha detto. Ha gli occhi che parlano questo ragazzo e un sorriso dolce e sempre pronto ad aprirsi. Ma quando mi racconta della Libia, il suo sorriso si spegne e i suoi occhi cercano un appiglio per non sprofondare.

Zahra, invece, la giovane mamma somala, parla poco, ma mi cerca. Credo le piaccia il modo incui gioco con sua figlia, probabilmente riconosce in me le cure di una madre e sente di potersi fidare.

È giovanissima Zahra. Quando le dico che sua figlia le somiglia tantissimo, mi abbraccia e mi ringrazia compiaciuta, perché questo è quello che vorremmo sentirci dire tutte dopo tutta la fatica che facciamo per metterli al mondo! Naima è una bomba di energia, di vita, di dolcezza, di spensieratezza. Nonostante tutto. Naima è vita. Sul ponte della Ocean Viking.

Sono tanti i volti, gli sguardi, i sorrisi, i gesti, i momenti e le storie che porterò con me. Gli occhi di Hatham che erano due pozzi neri di tristezza li vedrò sempre. La partita a carte con i ragazzini bengalesi, il disegno fatto insieme a Niloy, la serata a cantare tutti insieme sulla poppa della nave, la festa organizzata l’ultima sera prima di arrivare a Ortona con le musiche scelte da loro. I sorrisi, gli abbracci, i cuori fatti con le mani.

L’abbraccio finale

L’ultimo giorno della missione, quello dello sbarco a Ortona, lo ricorderò per sempre. Io ci tenevo a salutarli e abbraciarli tutti, uno ad uno, e non ero la sola tra l’equipaggio.

L’ultimo naufrago a sbarcare è stato un ragazzo sudsudanese, poco più che diciottenne, solo. Tutta la crew lo ha accompagnato fino alla passerella e mentre scendeva lo abbiamo applaudito. Forte. Con le lacrime agli occhi. E proprio mentre lo guardavamo scendere, la voce del Capo Missione, che era lì con noi, è tornata in radio: “All crew, all crew. Rescue completed.

E lì, è scoppiato un altro applauso, ancora più grande, un grido di gioia, di liberazione, di emozione condivisa: ce l’avevamo fatta, li avevamo salvati tutti e portati al sicuro. È stato davvero uno dei momenti più emozionanti della mia vita. E non è stato facile gestire tutta quella emozione, a un certo ho smesso di provare a gestirla e l’ho lasciata scorrere. Mi ci è voluto un po’, una volta tornata a casa, per elaborare tutto quello che avevo vissuto e che mi porto nel cuore e per sempre nella memoria.

Poco dopo la fine dello sbarco, la radio ha chiamato il mio nome: il Capo Missione mi chiedeva di andare sul ponte. Lì c’era tutta la crew in cerchio ad attendermi. Mi hanno consegnato unpezzo di gommone proveniente da un salvataggio passato, con le loro firme e il numero della nostra missione: la 41.2. Era il loro modo di dirmi: “Ora sei una di noi”.

Mi hanno resa parte dell’equipaggio. Ed è stato uno dei momenti più belli della mia vita. Questa missione lo è stata. Perché questo è il senso di tutto. Salvare vite.

A loro va tutta la mia gratitudine. Perché in un mondo che spesso volta lo sguardo, loro scelgono di esserci. Sempre.