«Abbiamo spiegato a lungo la situazione alle persone a bordo, ma era più forte la paura di essere rimandati in Libia con la forza»
Luglio 2020. Per la prima volta nella sua storia, SOS MEDITERRANEE va in mare con un proprio team medico, nel bel mezzo della pandemia globale da COVID-19. Per la prima volta, inoltre, verrà dichiarato lo stato di emergenza, a causa di una sofferenza psicologica pericolosa a bordo che, senza il sangue freddo dei team, avrebbe potuto facilmente trasformarsi in tragedia. L’ansiogena nona rotazione della Ocean Viking lascerà il segno nella mente di tutti i membri del team, a cominciare da Anne, medico di bordo.
Qual era lo stato di salute dei sopravvissuti quando sono arrivati a bordo?
«Oltre al mal di mare, i superstiti soffrivano di disidratazione, spossatezza, gravi insolazioni e presentavano i segni di un forte stress psicologico, dovuto alla paura di morire in mare, che hanno provato per quattro giorni e quattro notti. Molti di loro hanno riferito di essere stati trattenuti con la forza, rapiti, picchiati e torturati dai loro rapitori durante la loro permanenza in Libia. Alcuni avevano traumi precedenti (contusioni da pestaggi, cicatrici da bruciature, traumi alle articolazioni causati dall’essere stati costretti a lungo e con la forza a mantenere una posizione dolorosa, postumi di un arto rotto non adeguatamente trattato…) così come lesioni fisiche dovute alla tipologia estrema del lavoro forzato in Libia. A causa della mancanza di accesso all’assistenza sanitaria o ai farmaci, molti sopravvissuti che soffrono di malattie croniche hanno anche visto peggiorare le loro condizioni di salute. Infine, abbiamo incontrato problemi legati alle condizioni di vita in Libia, come ascessi che richiedono interventi chirurgici, malattie infettive della pelle o una grave malnutrizione»
Cosa ha causato tanta ansia a bordo?
«Avevamo visto innumerevoli segni di traumi “invisibili” inflitti in Libia, tra cui gravi traumi psicologici (causati, ad esempio, da violenze sessuali). Sebbene al sicuro a bordo della Ocean Viking, continuavano a soffrire lo stress psicologico tipico delle persone che affrontano un’esperienza di morte imminente (dopo aver trascorso giorni in mare aperto). Poi è comparsa l’angoscia legata all’attesa prolungata sulla nave senza alcuna informazione. Non sapendo cosa sarebbe successo loro, alcuni hanno cominciato a temere di essere rimandati in Libia con la forza. Il fatto che il nostro equipaggio non abbia ricevuto alcuna informazione [dalle autorità marittime competenti] e quindi non abbia potuto condividerla con i sopravvissuti ci ha reso più difficile stabilire un rapporto di fiducia con loro, il che ha causato in loro un forte disagio psicologico. La Ocean Viking è una nave di ricerca e soccorso, è progettata per garantire la sicurezza delle persone per un breve periodo di tempo prima che vengano sbarcate in un porto sicuro. Il ponte è scomodo, non c’è molto per tenere impegnata la mente ed è difficile fare una buona notte di sonno ristoratore. Estenuati, i superstiti non hanno avuto altro da fare che rimuginare sulle loro esperienze traumatiche e sulle loro preoccupazioni»
Come avete gestito la situazione durante gli 11 giorni di attesa di un porto sicuro?
«Abbiamo spiegato a lungo la situazione alle persone a bordo, ma la loro paura di essere rimandati con la forza in Libia era più forte. Abbiamo risposto alle loro domande come meglio potevamo, ma tutto quello che potevamo dire era che stavamo facendo del nostro meglio per ottenere un porto sicuro per sbarcare e che, nonostante i nostri numerosi tentativi di ottenere informazioni, non ne avevamo ancora nessuna da condividere. Questo ha alimentato la frustrazione e creato un livello di disagio che li ha portati a considerare di fare del male a se stessi o agli altri. Un’altra causa di stress è stata l’impossibilità di contattare le loro famiglie [a causa della mancanza di rete] che non sapevano se erano vivi o morti. Ci sono stati sei tentativi di suicidio a bordo, diversi attacchi di panico, pensieri depressivi… L’équipe medica ha risposto con il primo soccorso psicologico (PFA), un maggiore sostegno e un’ampia assistenza medica. Ma non potevamo eliminare le cause esterne del loro disagio: eravamo limitati nell’aiuto che potevamo dare loro»
Foto : Flavio Gasperini / SOS MEDITERRANEE