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Mariam* e la sua famiglia sono vissuti in Libia per alcuni anni. Salvati in alto mare dai soccorritori di SOS MEDITERRANEE, raccontano perché hanno deciso di lasciare il Paese diventato un vero e proprio inferno.

Mariam non vuole dare il suo vero nome. Ha ancora troppa paura che vengano riconosciuti, lei, i due figli che le stanno accanto e il marito, al riparo da qualche parte sulla Aquarius tra gli 587 superstiti salvati dal naufragio in questo giorno d’inverno.

Se accetta di raccontarci la loro storia, ancora non si rende conto che il loro incubo libico è concluso. Eppure, è laggiù che, alla fine del 2012, aveva deciso di raggiungere suo marito, partito poco prima per la città di Derna, dove sperava di guadagnarsi da vivere meglio che in Mali, loro Paese d’origine. All’epoca lei aveva 19 anni, lui 18. «Lui lavorava in una fabbrica di cemento, io invece facevo la commessa in un negozio di abbigliamento».

I loro due figli, che oggi hanno due e quattro anni, hanno recuperato dei palloncini che tentano di gonfiare malgrado i richiami della madre, che cerca di dare loro invece la carta e i pennarelli messi a disposizione nella zona riparata della Aquarius. Una causa persa ….

La speranza di una vita migliore in Libia è presto svanita

Entrambi sono nati in Libia. «Ma non sono libici: i neri non hanno alcun diritto nel Paese». La famiglia viveva modestamente a Derna, in Libia, fino al giorno in cui la fabbrica ha chiuso e la strada è stata sbarrata dagli islamisti. «Tutto è diventato molto più caro. E far mangiare i nostri figli era complicato. Il prezzo di una bottiglietta di latte che prima costava 12 dinari (circa 7 euro) è raddoppiato a 23 dinari (14 euro). Una confezione di pannolini è passata da 7 dinari (grossomodo 4 euro) a 25 dinari (15 euro) …».

Cibo, acqua, gas, elittricità, tutti i prezzi sono decollati e la loro vita è cambiata. «Il lavoro non serviva più a niente: o si veniva pagati la metà o non si era pagati affatto. Per una donna uscire sola in strada era diventato impossibile: la catturano, la imprigionano e poi chiamano suo marito o la famiglia per chiedere denaro … Fin quando non pagano, lei resta in prigione, viene picchiata o peggio … I libici rimpiangono Gheddafi. Anche noi».

La traversata, l’unica possibilità di uscirne

La loro partenza per l’Europa non era prevista ma è diventata a poco a poco necessaria come unica via di fuga per tentare di sfuggire a questa miseria. Ha pensato innanzitutto ai loro figli. Bloccati a Derna, città costiera a est del Paese, hanno atteso una settimana intera prima di poter scappare e intraprendere un viaggio lungo sette giorni per raggiungere Bengasi, a circa 400 chilometri a Ovest del Paese.

«C’erano dei “bouabas” (una specie di posto di blocco di polizia) che ci rimandavano indietro». Una volta arrivati, hanno trascorso qualche giorno da un «conoscente» prima di partire per Tripoli, a oltre mille chilometri di distanza. «Abbiamo impiegato due settimane».

«Siamo stati fortunati, avevamo qualcuno da cui stare laggiù. Ci siamo informati e abbastanza in fretta delle persone ci hanno spiegato come fare per partire. Ci siamo lanciati anche se conoscevamo il pericolo».

Mariam sa che la sua famiglia è scampata alla morte ma non si pente della scelta che lei e suo marito hanno fatto. «Neanche il mio peggior nemico manderei in Libia», si sfoga prima che la lasciamo.

*Il nome è stato modificato per tutelare l’anonimato della giovane donna

Foto Susanne Friedel / SOS MEDITERRANEE (Allo scopo di tutelare l’identità delle persone, la foto non corrisponde ai protagonisti della storia).