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Alessandro, soccorritore a bordo di Ocean Viking ci racconta, in questo suo diario di bordo, l’ultima missione della Ocean Viking. Da quarantena a quarantena. Dall’isolamento a Marsiglia a quello nel porto di Augusta. Ma in mezzo c’è il mare, la vita e la salvezza.

PARTENZA 

Dici Capodanno a Marsiglia e ti immagini le cose in modo diverso da come sono andate. Pensi ai colori, alla folla, alla musica di una città magica. Questa invece è una ricorrenza in quarantena, misura di auto-controllo prima di imbarcare sulla Ocean Viking. Arriviamo in Francia poco dopo Natale e della città vediamo l’aeroporto e un albergo. Neanche in centro, uno lontano dalle piazze e dal rumore. Palazzone di sette piani e trecento stanze. Ognuno di noi, siamo 22, a occupare un appartamento. Letto, computer, bagno e cucina. Ci teniamo in contatto con un calendario di appuntamenti online e riunioni, è tempo per studiare i protocolli e parlare la stessa lingua. Operativa. 

Dieci giorni passano in fretta, senza lasciare troppi ricordi. Facciamo scorta di film, libri e musica: una volta in nave internet sarà un bene prezioso, la imbottigliamo per i momenti di scarsità. 

Il team arriva da mezza Europa e anche da più lontano. Ci vediamo finalmente negli occhi una volta a bordo, in un angolo remoto del porto. Compagni di viaggio solo i gabbiani e una barca a vela che ci scorta mentre prendiamo il largo. Corsica e Sardegna ci fanno da riparo contro il mistral: soffia forte, troppo, qualche traghetto viene dirottato perché il mare diventa tridimensionale. Coni e trapezi d’acqua ci tengono fermi per qualche giorno. 

PRIMO SOCCORSO 

Calato il vento arriviamo nella SAR zone, entità statistica fatta di numeri e coordinate: soccorsi, incidenti, dispersi in mare. La Libia è ancora lontana ma si annuncia con sbuffi di fuoco dei pozzi petroliferi offshore. 

All’inizio sono solo delle tracce sul radar, o dei puntini che scompaiono all’orizzonte. Poi li vedi con il binocolo, e agitano braccia, teste, forme. Spesso capita di notte, e sono macchie verdi nei visori infrarossi. Quando li vedi, non stai nella pelle per avvicinarti con il gommone, e dire loro “siete salvi“, ma devi essere prudente, coordinato: ogni passo falso può essere una persona che muore in mare. 

Succede ancora: sul ponte a cercare, e dopo mezz’ora in acqua a tendere mani. Davanti a noi gommoni che non dovrebbero prendere il mare, carichi di un’umanità in fuga e che accetta il rischio del Mediterraneo perché non ha alternative. Li abbiamo soccorsi all’alba e poi ancora nella notte, un gommone dopo l’altro. Da vicino vedi il popolo precario di queste barchette di carta: sono giovani uomini, donne e tantissimi bambini. Una volta fatti i conti, quasi metà sono minori non accompagnati, due donne incinte, vari neonati. Il più giovane ha solo un mese di vita, è più piccolo di qualsiasi nostro giubbotto salvagente, sembra annegare nel tessuto arancione che gli salva la vita.  

Dopo quattro soccorsi – uno con vento forte e onde alte – abbiamo a bordo oltre 370 persone. Una donna incinta viene evacuata per motivi medici, un ragazzo sequestrato dalle milizie ha la gamba fratturata, altri cercano di ricongiungersi a mogli e cugini già in Europa. Stanno qualche giorno con noi, e molti non stanno bene. Mal di mare, pioggia, il freddo delle notti di gennaio. 

Sono alla mia nona missione, dovrei essere abituato, ma mi accorgo di non esserlo.  

Troppa umanità che si stringe sul ponte, troppe bocche e occhi e braccia che dicono, chiedono, raccontano. Una Babilonia temporanea e struggente, in cui si alternano canti di gioia e accessi di angoscia. 

Li sbarchiamo ad Augusta, esausti loro e anche noi. Gli ultimi a scendere intonano un coro, potente, che fa venire la pelle d’oca.  

Faccio tradurre, il senso è: tornate in mare, salvate i nostri fratelli. 

SECONDO SOCCORSO
Dopo dieci giorni riprendiamo le operazioni. Stesso luogo, il Mediterraneo conosciuto come il cortile di casa, popolato da persone con destini troppo simili. 

Immaginate i naufraghi che cantano la loro salvezza sul ponte di una nave. Uomini, donne e neonati, ma soprattutto minori che viaggiano da soli e si scoprono adulti fra una prigione in Libia e una notte in gommone in mezzo al mare. 

Così è la Ocean Viking dopo due giorni di soccorsi. Siamo fisicamente stanchi perché abbiamo dato tutto: le ore di sonno, intere giornate sul gommone, turni in clinica e a ripulire, l’adrenalina e l’attesa, gli occhi che bruciano incollati al binocolo. 

Giorni di quiete e momenti febbrili si alternano, come se strappare anche solo una persona dal mare fosse un concentrato delle nostre vite: settimane di preparazione per un momento. 

Quando afferro quei polsi, trascinando corpi dall’acqua al nostro gommone, sento sempre una consistenza diversa. Forza, fragilità, timidezza, vergogna e molto altro che non saprei dire si mescolano in un contatto, il tempo per chiedere non c’è, bisogna intuire e passare al prossimo. 

In questi giorni di insolito mare calmo sono partite varie centinaia di persone, più giusto contare a migliaia. Molti intercettati e riportati in Libia, qualcuno salvato da noi, qualcuno forse morto. La fragilità di quelle barche è tessuta di tempo precario, che scorre veloce, e la differenza fra chi sopravvive e chi no, si misura in minuti, in manciate di fortuna. 

NOTTE 

Mediterraneo, esterno notte. Febbraio, inverno.  

Sulla Ocean Viking convivono 422 persone, alcune letteralmente ripescate in mare. Due se l’è portate via un elicottero maltese, marito e moglie, lei gravemente malata. 

I primi ad essere soccorsi dormono in quello che chiamiamo ‘shelter‘, il rifugio. È la nostra prima classe: pavimento di legno, pareti di ferro, e radiatori al soffitto. Niente materassi, qualche fortunato dorme sul cartone. 

Gli ultimi arrivati si sistemano all’aperto, riparati da un telo anti pioggia o con vista sul Gran Carro. Chi pensa al passaggio ponte dei traghetti per le vacanze sbaglia in eccesso. Qui è una distesa di sacchi di plastica spessi, con dentro esseri umani. Le persone dormono imbustate come carote. Fra un corpo e l’altro non c’è neanche lo spazio per camminare. Per spostarci, abbiamo teso delle funi e sembriamo degli equilibristi appesi per le braccia. Di notte il ponte non si percorre, si scala, è un passaggio verticale a evitare dita, gomiti e nasi. 

Mi sono chiesto più volte come dormono le persone che abbiamo soccorso. Per capirlo, una volta ho fatto ricorso al metodo scientifico. Mi sono impacchettato nelle sacche di polietilene arancione, trovando una fessura fra due naufraghi. L’esperimento ha rivelato con chiarezza la scomodità e soprattutto il freddo. Intimità forzata e legno duro. Soluzione che dovrebbe essere temporanea e che la politica spesso fa lievitare da ore a settimane. Il corpo reclama una doccia e una colazione pigra e abbondante. Lussi che non trovi facilmente su una nave ambulanza, e che certo scarseggiano quando le notti all’aperto si accumulano. Una, due, tre, a volte sette, quattordici, in una fila di attese impossibili. Riconosco la resilienza dei nostri naufraghi, che un mattino dopo l’altro si accendono di speranza. 

SBARCO
Augusta non è un luogo in cui vado volentieri, il suo porto commerciale è industria pura e dura – montagne di rottami di ferro, colline di zolfo, blocchi di cemento come palazzi – ma questa volta ci arrivo affannato e colmo di gratitudine. 

La Ocean Viking stava preparandosi alla pioggia in arrivo, montando teli per proteggere le persone sul ponte, quando ci hanno concesso il porto di sbarco. 

Sollievo, sentimento cauto e incredulo, ma per cosa? Per un atto dovuto, come dare da bere agli assetati, regolato da leggi internazionali, a lungo negato e ritardato. Mi è capitato spesso: stare settimane con naufraghi a bordo, in attesa di un porto. 

Per fortuna non è successo questa volta, quando l’attesa era caricata da una preoccupazione in più, 8 persone positive al Covid. Isolate, ma pur sempre sulla stessa barca di 69 metri. Naufraghi e soccorritori, positivi e negativi, mille modi per dire “noi e loro” e mettere una distanza che non c’è. 

L’annuncio del porto di sbarco è sempre motivo di festa, canti e balli si levano al cielo. Questa volta non abbiamo potuto partecipare, resi cauti dai protocolli di prevenzione. Sorrido dietro la mascherina, e mi chiedo cosa rimarrà di quella gioia entro pochi giorni. 

La prova arriva di notte, ancorati in rada ma con la pioggia che arriva puntuale, annunciata dal vento forte. E poi mattino successivo, in banchina, nella lunga attesa dei tamponi e del foto-segnalamento per tutti. 

Dopo un giorno di sbarchi, restano a bordo 79 persone. È di nuovo notte e la macchina amministrativa si ferma. Metà di loro sono risultati positivi, e vivono la notizia rivelando lo spavento. Vedo muscoli tesi, mascelle che tremano, donne in lacrime, incomprensione. Finalmente reazioni nuovamente umane, il lusso di avere paura e di poterlo raccontare a qualcuno. Quello che noi chiamiamo soccorso – ma che per molti è un viaggio verso l’incerto – termina il pomeriggio successivo con lo sbarco di tutti. Improvvisamente vuota, la nave riecheggia delle voci e dei silenzi dei sopravvissuti. 

TITOLI DI CODA 

Vivere e lavorare in nave è un esercizio di pazienza. Finita la missione non è che puoi semplicemente salutare e scendere, ci sono tempi tecnici. A questo giro, dilatati senza chiari limiti. Siamo in quarantena così come le persone che abbiamo soccorso. Loro su un traghetto gestito dalla Croce Rossa, noi sulla Ocean Viking. Ci vediamo da lontano, in due posti diversi del porto, entrambe le navi all’ancora. La corrente e il vento ci fanno disegnare circonferenze, giriamo in tondo come criceti. Nei giorni di sole teniamo d’occhio l’Etna innevato che scorre a destra e a sinistra. Di notte ne percepiamo i lampi e gli sbuffi di lava. L’attesa a bordo viene messa a frutto, ci sono sempre lavori e manutenzioni. Ordini da fare, soluzioni da trovare, riparazioni. E verniciare, verniciare. Sembra che le navi siano tenute assieme dalla pittura.  

In un pomeriggio di sconforto chiedo al mediatore culturale di ricordarmi cosa ci facciamo qui. Lontani da casa e dagli affetti per mesi, metà vita che passa fra cime e lamiere. Illuminami Riad, riportami al senso. Lo guariremo mai, questo mondo? 

Facciamo quello che è giusto fare. Là fuori c’è gente lasciata sola ad affogare. L’Europa non muove un dito. In Libia la gente viene ammazzata e stuprata. A me che parlo arabo queste cose le raccontano. Vai dalla dottoressa, chiedile dei segni di tortura sui corpi”. 

Mentre lo dice, sul telefono mi arriva la notizia dell’ennesimo naufragio. Un corpo ritrovato, 22 dispersi, qualche sopravvissuto. A sud, a un giorno di navigazione da noi. 

 Le foto in quest’articolo sono state scattate durante le missioni di gennaio da Fabian Mondl e Hippolyte per SOS MEDITERRANEE