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A gennaio 2021, Julia, l’ufficiale di comunicazione a bordo di Ocean Viking, ha raccolto la testimonianza di una donna che è andata incontro a violenze indicibili in Libia. Qui il resoconto di quel colloquio terribile eppure così reale.
—ATTENZIONE: contenuto sensibile, contiene un resoconto di violenza sessuale—-

Dietro ad ogni domanda, un abisso 

Lavorare su una nave di soccorso nel Mediterraneo centrale significa rispondere alle emergenzeQuesto dovrebbe essere ovvio, ma la crisi nel Mediterraneo è stata discussa in politica e nei media per così tanto tempo che a volte mi sembra che la gente dimentichi. Quello che facciamo sulla Ocean Viking quando passiamo dall’avere una nave vuota all’occuparci di quasi 400 persone con un equipaggio di 31 persone – e in meno di 48 ore – è la quintessenza della risposta alle emergenze. 

In qualità di responsabile della comunicazionevoglio condividere storie positive, evidenziare quanto siano coraggiose e complesse le persone che salviamoSoprattutto le donne 

Quindiriguarddelle donne che abbiamo avuto a bordo in questo gennaiovoglio parlare di “Bijou”, che vuole mettere tutto il suo viaggio in una canzone e fare un video su ogni sua parte 

O di “Ange”, la sarta camerunese che disegna abiti da festa per matrimoni e celebrazioniVoglio parlare della forza della “maga”, che ha portato in salvo la sua bambina di un mese.  

Ma questa è solo una parte della storia. La verità è dolorosa. Non è romantica, non è giusta. È esasperante e nauseante 

Lavorare in un contesto di risposta alle emergenze significa che la maggior parte delle volte la verità viene fuori nel mezzo del caosdurante le operazioni di soccorsomentre stiamo cercando di garantire la sicurezza e il benessere di centinaia di sopravvissuti allo stesso tempo. 

Per i membri della squadra femminile sull’Ocean Viking durante la missione di gennaio, la sensazione fortissima era che, dietro ad ogni domanda posta ad una donna sopravvissuta, ci fosse un abisso 

Hannah, l’ostetrica a bordo, è specializzata da quattro anni nel lavoro con le vittime di violenza sessuale. Ha lavorato in contesti di crisi e conflitti in diverse parti del mondo. “In Sud Sudan, lo stupro è usato come arma di guerra“, spiega. “Ma non ho mai lavorato in un contesto in cui la violenza sessuale è così diffusasistematica e brutale come ciò che accade a queste donne in Libia”. Quello che è successo in Libia alle donne che salviamo, è l’abissoPossono essere le domande più semplici che aprono l’abisso, e poi eccoci , in piedi sul bordoinsieme alle sopravvissute, a guardare verso il basso.  

La prima volta che l’abisso si apre davanti a me sulla Ocean Viking a gennaio è di nottenel bel mezzo di un’impegnativa operazione di salvataggio. Tutte le donne sono già al sicuro a bordo ma gli uomini sono ancora in fase di evacuazione dal gommone in difficoltà 

Traduco per Hannah, l’ostetrica, una domanda che sembrerebbe semplice alla maggior parte delle persone: “Sai se sei incinta?” La storia sgorga dalla giovane donna come acqua attraverso una fessura in una diga. “Sono stata violentataC’erano due di loroErano armati. ” L’abissoAbbiamo a malapena un momento per parlarei sopravvissuti continuano ad arrivare sulla Ocean Viking. Dobbiamo prenderci cura di lei più tardi 

Quella stessa notteall’ingresso della clinica di bordo, le donne aspettano in fila. Una di loro si lamenta del dolore all’addome. Dice che ha bisogno di medicine, sto traducendo per Caterina, il dottore, ma non capisco di quale pillola ha bisognoquindi devo chiederle a cosa le serve.  

Due o tre giorni prima, è stata picchiata così duramente dopo essere stata intercettata e riportata in Libia che ha subito un aborto spontaneo, mi racconta. Ha aspettato un’intera giornata all’ospedale di Tripoli prima di essere curata. Ha bisogno di un antibiotico a causa del rischio di infezione 

L’abisso si apre di nuovo. Dolore addominalepercosseaborto spontaneo. Come avrei scoperto in seguito, la gravidanza è stata il risultato di uno stupro. La donna e il suo fidanzato avevano deciso di tenere il bambino, ma ora non c’è più 

La prossima donna in clinica lamenta dolore generalevertigini e stanchezzaFinisce per rivelare a me e a Caterina un episodio di cui non aveva mai parlato a nessunoNemmeno a sua sorella. Si vergogna troppoPiange e piange per la vergogna. Dice di essersi isolata da quando è successo 

Per la vergogna. Caterina ed io la stringiamo. Le diciamo che non è colpa sua. Che non è lei quella che dovrebbe vergognarsi, ma gli uomini che le hanno fatto questo. 

Io e Caterina ci incontriamo all’ingresso della clinica tra un consulto e l’altro. Un breve momento di silenzio, una pausa di forse 30 secondi. “Il peggio è quando dicono grazie“, dice infine Caterina. “Facciamo il minimo indispensabile per loro e ci ringrazianoQuesto non dovrebbe nemmeno essere necessario. Quello che è stato fatto loro è disumano. Ma io non posso essere disumana. Loro non dovrebbero ringraziarci per averle trattate come esseri umani. Sono così forti. Non so se io sarei sopravvissuta. Mdobbiamo continuarequesta è ancora un’emergenza 

Un’altra sopravvissutaUn’altra visita. “Qualche intervento chirurgico importante in passato?”, chiediamo. “Un Cesareo, alcuni anni fa“. Ci fermiamo. Lei è a bordo da sola.  

Dov’è il bambino?”, chiediamoSeparato dalla madre quando stavano salendo sulla barca per fuggire dalla Libia. Il piccolo ha avuto paura degli uomini armati, “è scappato via dalle mie gambe“, dice. Quando ha voluto corrergli dietro, è stata costretta a salire a bordo della barca sotto la minaccia delle armi. Spera che si unisca ad una delle sue sorelle che è ancora in Libia. L’abisso. Dolore su dolore. 

Il giorno dopo, ho ascoltato la storia di una donna che è stata stuprata nel desertoattraversando il confine con la Libia, durante la notte. Era a piedi, con un gruppo di persone e una guidaL’esercito, la polizia di frontiera, o una milizia li aveva visti, ma li ha lasciati passare. Tutti tranne lei. Le è stata ordinato di restare indietroGli uomini, le armi, la vergogna. Quando l’hanno lasciata andare, era così debole che riusciva a malapena a camminare. Il suo straccio di vestito, a pezzi. La parrucca che indossavasparita. Ha perso il bambino di cui era incinta quando ha lasciato il suo paese 

La notte prima dello sbarcodonne e bambini a bordo sono gli ultimi ancora svegli. Nello spazio dedicato alle donne e ai bambini piccoli, lo “shelter” della Ocean Viking, sono tutti seduti in un grande cerchio, cantando canzoni di lode, una sorta di gospel. Una donna tamburella un ritmo. Molte delle canzoni sono a “chiamata e risposta: le donne si alternano cantando una linea individualementre il gruppo risponde in coro. Nella prima canzone, la risposta è “c’est cadeau” (è un dono). È gioioso, un canto di gratitudine e umiltà. Nella prossima canzone, le donne cantano di “-bas” (laggiù). Una canzone di speranzasu un futuro miglioresull’abbondanza che attende le donne nelle loro destinazioni, o nell’aldilà. 

Inizia una nuova canzone, questa volta la risposta è “c’est fini-oh” (è finita, oh). Di nuovo, le donne si alternano elencando tutto ciò che è finalmente finito. Ma l’umore cambia. Ora stanno cantando sulla Libia. “L’Esclavage” (schiavitù), una donna canta, “c’est fini-oh”, gli altri rispondono. “La prigionec’est fini-oh” (la prigione è finita). “Le viol, c’est fini-oh” (lo stupro è finito). La donna che prima stava tamburellando ora è in piedi in mezzo alla stanza, passa dal cantare al parlare. Sta parlando direttamente con me, seduta sulla porta con due bambine in grembo, e con Hippolyte, l’illustratore a bordo con noiche è in piedi dietro di me. “In Libia ci stuprano mentalmenteviolentano i nostri corpistuprano i nostri figli, lo stupro è ovunque“. Eccolo di nuovo: L’abisso. Mi guardo intorno. Tutte queste donne, tutti questi bimbi. 

Mentre sto per chiudere la porta del rifugio per la notte, una donna esce con me per riempire la sua bottiglia d’acqua. Si lamenta di un mal di testa, le dico che posso procurarle del paracetamolo“Non sono sicura che aiuti“, dice. “Ho questo mal di testa dalla prigione.” E poi l’abisso si apre di nuovo davanti a me, più profondo di prima. 

Non riesco a scrivere esattamente quello che mi ha detto questa donna. Ho paura che la gente non ci creda. Non basterano gli avvisi di storie tremendi innominabili. Quello che ha vissuto in prigione è indescrivibile. Dico solo questo: è scappata solo quando le guardie hanno pensato che fosse morta e hanno gettato il suo corpo nudo in un container per strada. Conclude la sua storia dicendo“Mi sono detto, se arriva la guardia costiera libica, mi butto in acqua. Ho vissuto attraverso l’inferno sulla terra in prigione. Ho vissuto peggio dell’inferno. Ho bruciature di sigaretta ovunque. Porto le prove su tutto il corpo.” 

Porterò la sua storia in me per sempre, ma non la sua memoria. Non so lei come faccia. Posso solo sperare che riceva le cure che si merita. Quella notte, in piedi accanto al distributore d’acqua con lei, cerco di ricordare quello che ho imparato sul primo soccorso psicologico (Psychological First Aid). Le dico quanto è forte, che non è colpa suache la Libia è finitaSembra tutto inutile. Ma nessuno di noi due sta piangendo. Per lei, è ora di dormire. Per me, è tempo per il mio orologio sul pontedobbiamo assicurarci che tutti siano al sicuro durante la notte. Questa è ancora un’emergenza. 

Per molte di queste donne, non ci sarà un lieto fine. L’Europa non sarà il “là-bas” della loro canzone, la terra dell’abbondanza. Mentre li guardo sbarcare, sento soprattutto rabbia. Sono arrabbiata che questo possa accader loro oggi, nel 21 º secolo. Arrabbiata perché nonostante tutto ciò sia assolutamente risaputo, l’Europa finanzia ancora la guardia costiera libica, che calpesta quotidianamente il diritto internazionale riportando coattamente le persone in Libia verso una prigionia disumana. Specialmente per queste donne. Arrabbiata perché tutto quello che posso fare è scrivere, anche se è già stato detto prima, nella speranza che qualcuno mi segua fino all’orlo dell’abisso e guardi giù con me. Guardate, lì in basso: la realtà, l’orrore, l’ingiustizia, in modo da iniziare a fare di più, collettivamente, per proteggere i nostri fratelli esseri umani.