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Partiamo dalla geometria.  

Dal ponte di comando di una nave, in una giornata tersa, puoi vedere lontano sei miglia, che sono quasi 10 chilometri. Questo è il raggio. L’orizzonte è il bordo, quello che vedi. Dentro è pieno di acqua. Due calcoli: sono 290 chilometri quadrati 

Questo è quanto l’occhio può spaziare in mare. E tu devi cercare un gommone, una cosa di plastica lunga forse 7 metri. Fra le onde. Con il vento di traverso. Di notte. 

Su quel gommone, strette le une alle altre, ci sono 100 persone, forse 130. 

Ma attorno c’è molto più mare, è ovunque, servirebbe un aereo per sorvolarlo tutto, per trovare quel gommone. Ma l’aereo non c’è, non arriva mai. 

Non c’è l’aereo ma arrivano le onde, tante, alte fino a sei metri. 

Io sono su quel ponte di comando, e vomito l’anima, fortuna che c’è un bagno. Ancora non è nulla, è solo mal di mare. 

Sono assieme a soccorritori esperti, gente di mare che passa mezza vita nel Mediterraneo, e pure loro stanno male. Oggetti che volano, computer che cadono dalle scrivanie. Stanchezza fisica. Io che mi muovo a stento, mi sento paralizzato, tremo. 

Sono dentro a una nave da migliaia di tonnellate e mi sento fragile. 

Pensa come dev’essere stare fuori, su quel gommone. 

E infatti ci stai male, a dirla tutta ci muori. Basta che arrivi l’onda giusta a capovolgerti.  

Il vento fa il resto. 

Sono sul ponte di comando di una nave speciale, la Ocean Viking, una signora dei mari che cerca persone in difficoltà – persone, non chiamatele migranti, sono esseri umani – a raccontare, documentare per lavoro, l’avventura incredibile dei soccorritori, le loro ricerche, il loro mestiere, gli allenamenti, le prove in mare, la resistenza. E quell’altra incredibile avventura, di lotta e di vita, dei sopravvissuti. 

Solo che questa volta, e tante volte prima, nessuno sopravvive.  

Abbiamo inseguito questo gommone per quasi un giorno. Abbiamo saputo della sua posizione a 10 ore di navigazione, un’eternità. Chi scappava su quel pezzo di plastica ha chiamato aiuto, Alarm Phone, un progetto umanitario, una linea telefonica che raccoglie chiamate di chi è in pericolo. Li hanno chiamati due volte, dando le coordinate, e poi si è interrotto il filo.  

Non so nemmeno che ore sono, sento la radio di emergenza urlare un “mayday”: è più di un’allerta, più di un allarme, è il segnale di una necessità immediata, di chi è davvero nei guai. Chi lo lancia per altri non risponde e non si fa identificare. 

La Ocean Viking taglia dritto, cerca la strada più breve, si getta nelle onde che non danno tregua. Il resto lo sapete, vomito e cose che cadono.  

I ragazzi della crew a bordo si preparano per un soccorso di notte, che è la cosa che non vorrebbero mai fare. Troppo pericoloso, troppo buio, troppo soli. Ma non c’è nulla, non si vede nulla. 

Al mattino ci troviamo con altre tre navi mercantili a passare il mare al setaccio, come fosse di sabbia. Lo facciamo con i binocoli, che è come dire a occhio nudo in mezzo a tutta quell’acqua. 

Passano ancora le ore, nel primo pomeriggio qualcuno avvista dei corpi. Poi l’aereo, che finalmente è arrivato sopra le nostre teste, trova il gommone. A pezzi, in brandelli, e noi navighiamo in mezzo ai morti. Tre, dieci, tredici. E sono quelli che avevano un giubbotto di salvataggio o una camera d’aria attorno alle spalle, una ciambella, una ruota di bicicletta.  

Gli altri, crediamo 100 o 130, sono rimasti in fondo al mare. Un mare enorme, che se lo guardi da qui ti dici “non mi ci tufferei mai”. Ti sembra di andare incontro a una morte quasi certa. Chi ci si mette, in mezzo a quel mare, scappa da qualcosa di peggiore. 

Il Mediterraneo amplifica tutto, il bene e il male. Tutto s’ingigantisce, le proporzioni sono infinite. Una giornata di sole sembra il paradiso. Qui ho visto l’inferno.  

A bordo di una nave, di notte, io non ero mai salito. Sulla Ocean Viking della Sos Mediterranée avevo scelto di farlo per quello di cui mi occupo: la felicità. Pensavo non ci potesse essere nulla di più simile a quel cerco per il mio progetto di lavoro che salvare una vita. O essere salvati.  

Avevo messo in conto di aver paura; avevo provato a immaginarmi di tutto, io che non sono un marinaio, non sono un volontario di un’organizzazione umanitaria, non sono un medico, ma un vlogger, uno youtuber.  

Ma un conto è pensarlo, un altro è vederlo, respirarlo, passarci davanti e sentirsi all’improvviso inutili. Cercavo la felicità e ho incontrato la morte come non l’avevo mai vista prima. In quei corpi gonfi d’acqua sbattuti alla deriva da onde alte sei metri. Nella plastica molle di un gommone affondato. Nel fondo del Mediterraneo dove ci sono i cadaveri che neanche vediamo, che mai recupereremo, di cui non sapremo mai nulla della vita e potremo solo immaginarci la fine.  Come se non fossero mai esistiti.  

Ora a bordo c’è sgomento, c’è dolore, il morale è basso, la nave è vuota, dove avrebbero potuto esserci uomini e donne con il diritto alla vita. Aspetto che ritorni il sereno, su di noi, sulla Ocean Viking, suoi sui medici, i suoi soccorritori, infermieri e marinai. Siamo gli unici a navigare, continueremo. 

 

Giuseppe Bertuccio D’Angelo 

Youtuber e Content maker a bordo della Ocean Viking