Ore 21.43, in lontananza si sentono canti provenire dalla poppa della Aquarius. Prendo la mia macchina fotografica e corro. Li avevamo salvati qualche ora prima e ora sono lì, riuniti in cerchio a cantare, pregare e festeggiare. Gli chiedo perché stiano cantando: «Celebriamo la vita. Ringraziamo Dio per essere ancora vivi e lo ringraziamo per averci mandato la Aquarius a salvarci quando credevamo che tutto fosse finito. Ma le nostre preghiere sono anche per i fratelli rimasti in Libia».
Dopo aver scattato un paio di immagini, ho posato la macchina fotografica e mi sono seduto accanto a loro. A volte la fotografia diventa secondaria. Mentre li osservavo cantare, ballare e pregare, ho capito che nonostante fossimo stati noi ad avergli salvato la vita, erano loro che stavano dando qualcosa a noi. In quell’istante ci stavano insegnando alcuni valori fondamentali. Valori che sempre più raramente trovano posto nelle nostre vite, privilegiate, distratte e anestetizzate dalla routine quotidiana.
Quella sera, sulla poppa della Aquarius, quegli uomini e quelle donne ci stavano insegnando l’importanza di lottare e rimanere aggrappati alla vita, la continua speranza e la determinazione nella ricerca di un futuro migliore, la capacità di esternare la gioia e di manifestare la gratitudine in maniera libera e incondizionata, l’amore e la compassione verso chi si trova in una condizione peggiore della nostra. I nostri fratelli – così li hanno chiamati – che sono ancora imprigionati nei centri di detenzione libici. Posti che di umano non hanno nulla. Posti più vicini all’inferno che alla terra.
Foto e testo Guglielmo Mangiapane / SOS MEDITERRANEE