Testimonianza di un uomo siriano di 23 anni
Testimonianza raccolta da Hassan, membro del SAR team
Questa persona è di origine drusa. Ha raccontato che da molti anni è in corso un conflitto locale nella sua cittadina, Sweida. Ha detto che questo conflitto non riguardava le religioni, le religioni parlano di pace, e a queste persone semplicemente non piaceva avere un dialogo pacifico. Ha studiato sociologia per comprendere questo genere di dinamiche di conflitto tra le persone, per generazioni. Il regime venne in seguito lì e cercò di costringerlo ad unirsi alle forze armate. L’amico con cui viaggiava veniva dalla stessa cittadina. Si sono incontrati lungo il tragitto, in Sudan.
Si stava recando all’università, come ogni giorno, nella sua città natale di Sweida, quando le proteste contro il presidente Bashar Al-Assad esplosero per la prima volta. La gente a Sweida moriva ogni giorno nella guerra civile tra le forze di Assad e le forze ribelli antigovernative. Le forze di Bashar lo fermarono e gli dissero: «Ora è tempo di essere uno dei nostri soldati».
«Dal mio punto di vista loro erano gruppi terroristici. Non posso descrivere a parole quel che mi accadde quel giorno. I soldati iniziarono a spingermi e picchiarmi in strada. Non posso essere un soldato come loro, uccidendo la gente, la mia gente».
Fu fortunato quel giorno perché una donna anziana si precipitò in strada implorando i soldati che giravano con la pistola di risparmiare quegli uomini (lui e gli altri). Lei capì cosa stava accadendo e finse che fossero “i suoi figli, i suoi vicini”. Il testimone non aveva mai visto quella donna prima di allora, ma i soldati cedettero. La sconosciuta salvò la sua vita quel giorno.
Tornò a casa, ma aveva deciso di fuggire dalla Siria. Parlò con sua madre e i suoi fratelli riguardo ciò che gli era accaduto. «Eravamo in guerra: un missile precipitò su un edificio vicino. Avremmo potuto essere uccisi in Siria», disse.
Così entrò in contatto con un gruppo clandestino noto per introdurre di nascosto i siriani in Sudan attraverso la Giordania. Fu fortunato in quanto i trafficanti avevano spazio in una macchina privata per trasportare lui e suo fratello (un amico della stessa cittadina che era lì con lui durante il colloquio) al confine l’indomani. Trovò un passaggio che li lasciò in una città al confine poroso con la Giordania. Il mattino seguente, uscirono da quella porta e lasciarono la loro vita alle spalle. Dall’altra parte (Giordania), bus e camion aspettavano di trasportare avanti e indietro famiglie in fuga verso una relativa sicurezza per qualche tempo. Cinque giorni più tardi, arrivò nel campo profughi di Zaatari, una città-ricovero di fortuna di 85.000 persone, flagellata da stupri e violenze.
Gli stessi trafficanti lo portarono via dal campo, pagò 1200 dinari.
«Dicevo continuamente a me stesso che non volevo andare e venire dalla Siria, era tutto così lontano dalla mia vecchia vita».
«Ho ricevuto un visto dalla Giordania per il Sudan con il mio amico, pagando tantissimi soldi. Era la mia prima volta su un aeroplano. Quel giorno dissi a me stesso “addio discriminazione”. Dieci giorni in Sudan con il mio amico e ricevemmo un nuovo visto per Tripoli, Libia, nell’aprile del 2017. Ci aspettavamo di trovare un normale aeroporto, ma questo era piccolo e c’erano tanti ‘bimbi’ in uniforme (bambini e adolescenti) che imbracciavano delle armi. Arrestarono me e il mio amico e ci portarono dall’aeroporto direttamente in prigione. Ci dissero che eravamo trafficanti. Presero i nostri soldi, i nostri documenti, i nostri vestiti. Ci picchiarono, ci chiesero di chiamare i nostri genitori per i soldi. Gli dicemmo “noi non abbiamo nessun genitore. Lasciateci liberi”». La loro famiglia era già stata catturata in guerra e non sapevano se erano ancora vivi.
«Spendemmo tutti i soldi che avevamo per riprenderci la nostra libertà. Uscimmo dalla prigione senza soldi, niente. Iniziai a cercare qualsiasi lavoro. Ogni volta avevo un piccolo lavoro da fare nel campo delle costruzioni, il mio boss libico tratteneva la mia paga e mi dava appena una piccola diaria per i pasti per sopravvivere ed avere energie per lavorare per lui un altro giorno». Prima di arrivare in Libia, pensava che avrebbe incontrato brave persone, ma «sfortunatamente ho incontrato solo brutte persone». Stava pianificando di attraversare il mare prima di andare in Libia, alcuni suoi amici lo avevano fatto e ce l’avevano fatta, perché «non aveva altra scelta che oltrepassare il mare».
«Dopo due mesi, ero pronto a dire “mai” più questa vita. Così iniziai a pensare di chiamare le autorità o partire immediatamente. Grazie a Dio, l’uomo libico mi cacciò e mi disse che non potevo lavorare e che non avevo energie sufficienti. Così, partì e mi trasferì a Zwara.
Sono riuscito a trovare un altro posto sul quale lavorare per una paga settimanale e nel giro di un mese, avevo abbastanza per lasciare il Paese in cui i Siriani non hanno un rifugio, privati del cibo e della vita in assenza di qualsiasi parvenza di dignità umana. Tutto il tempo, pensavo di tornare in Siria e dicevo a me stesso che in effetti non era la cosa peggiore. Lo era la Libia. Molte persone ci avrebbero investito con la macchina perché eravamo siriani, venivamo perquisiti tutte le volte che eravamo in pubblico.
Non avere niente di valore con noi era peggio di esser derubati, dal momento che nella migliore delle ipotesi garantiva un duro pestaggio. Per qualche settimana sono stato catturato e chiuso in un ‘hammam’ per 84 giorni dai trafficanti libici. Qualche volta ricevevo dell’acqua e un piccolo biscotto. Una notte, mentre stavamo tentando di prendere una sorta di sonno, la “polizia” libica ci assalì. Dieci persone furono uccise sotto i miei occhi, con nessuna assistenza medica. Fu in quel momento che io decisi che avevo perso troppo, avevo visto troppo. Riuscì a racimolare abbastanza per tornare indietro in Sudan. Mi erano giunte voci che alcuni libici in Sudan facilitavano questo intento tramite trasferimenti di denaro. Così sono tornato a lavoro per spedire loro dei soldi. Ma una sera, quando avevo messo da parte sufficienti soldi per il mio viaggio di ritorno, la polizia mi ha sorpreso nel rifugio di fortuna nel quale stavo dormendo. Mi perquisirono e mi chiesero dove avessi preso quei soldi che nascondevo. Presero tutto e mi rinchiusero.
Non avevo altra scelta in questo Paese. Dopo due mesi, decisi di muovermi nuovamente ed oltrepassare il mare. Ho pagato 2700 dinari con altre 21 persone ad un libico e ho attraversato il mare per raggiungere l’Europa. Sono partito da Zwara nella notte. Siamo stati salvati da una petroliera nel Mediterraneo. Dopo, abbiamo incontrato SOS MEDITERRANEE ed MSF.
Ora, voglio andare in un luogo sicuro, non ho ancora un nome per questo posto. Mi piacerebbe anche continuare i miei studi».
Intervista raccolta da: Hassan Ali (SAR team)
Foto: Anthony Jean /SOS MEDITERRANEE
Traduzione: Tiziana D’Acquisto
Editing: Federica Giovannetti