Testimone: Aquarius
Buongiorno. Mi presento: sono una signora dei mari; il mio nome adesso è Aquarius. Un tempo mi chiamavo in modo diverso, Meerkatze, Gatta del mare – guardando con attenzione sotto la vernice arancione, alla mia prua, si vede ancora quel vecchio nome marchiato a fuoco. Ma si sa, noi navi cambiamo spesso nome, a patto che vengano rispettati alcuni riti scaramantici.
In origine ero una nave militare – sorpresi vero? Sono stata creata per la Marina Militare tedesca quasi 40 anni fa. Sono nata per proteggere vite, nello specifico le vite dei pescatori tedeschi nel Mare del Nord. Dopo tanti anni di onorato servizio nei rudi mari settentrionali a salvare persone, sono stata acquistata da una compagnia privata tedesca; a quel tempo ero molto triste, mi sentivo vecchia e inutile, e per di più pensavo che non sarei mai più servita a proteggere vite umane. I miei nuovi compiti prevedevano che io trasportassi materiali di rifornimento per giacimenti di petrolio o di diamanti e che io contribuissi a esplorare il fondo del mare per trovare materie prime. È stato anche a quel tempo che il mio nome è cambiato in Aquarius, un nome che riunisce in sé il mare e le stelle, e che presagiva senza dubbio tempi migliori.
Ormai ridotta a una vecchia signora che faceva avanti e indietro tra casa ed il supermercato, anche se già navigavo tra le magnificenze dell’oceano invidiavo la barca ubriaca di cui canta Rimbaud. Per fortuna non è stato necessario l’intervento cruento dei pellerossa per liberarmi dal mio insulso trantran: un anno e mezzo fa il sogno un po’ folle e intriso di umanità di alcuni visionari mi ha portato a navigare nelle acque forse più ristrette del Mediterraneo, ma con obiettivi più alti: ho allargato la mia missione originaria, proteggere, non limitandomi più ad un gruppo di persone definito dalla nazionalità, ma a tutti gli umani che rischiano il naufragio.
A chi non va per mare è forse difficile capire perché per noi gente di mare il salvataggio è così primordiale. Ma il naufragio che oggi succede a te domani potrebbe succedere a me, e quando avviene non puoi contare su nessun altro se non sulla nave più vicina.
Il mio porto di riferimento è adesso Catania, anche se frequento spesso tutti i porti dell’Italia meridionale – almeno quelli che possono accogliere i miei 77 metri di lunghezza!
A bordo ho un equipaggio molto variegato, sia per provenienza che esperienze, che mi piace coccolare con tutti i comfort che posso, in particolare cercando di non fare troppo rumore e facendo attenzione a non muovermi fastidiosamente quando c’è onda; mi piace sentir parlare italiano, ghanese, russo, francese, filippino, spagnolo, tedesco, ucraino, lituano, greco, anche se la lingua ufficiale è l’inglese con i suoi vari accenti da ogni paese del mondo. I miei ospiti sono diversi e tutti straordinari: alcuni sono marinai professionisti impiegati dalla compagnia privata tedesca che mi dà in affitto, la cui competenza e operosità mi stupisce ogni volta; altri invece sono medici, infermieri e persone legate al mondo sanitario, capaci di un’attenzione verso gli altri e di una dedizione incredibili.
Ma confesso che i miei preferiti sono i soccorritori marittimi del SAR Team: ognuno di loro ha una storia diversa, ognuno di loro ha un motivo diverso per essere a bordo, rappresentano le più diverse sfaccettature dell’umanità, ma sono accomunati da due particolarità che mi stanno a cuore e in cui mi rispecchio, la voglia di salvare persone e l’amore per il mare, e tra loro creano una specie di fratellanza che è impossibile descrivere a parole, e di cui mi sento un po’ parte. È bellissimo vedere come queste tre ‘anime’ che formano il mio equipaggio si fondano tra loro e diventino un unicum appena avvistano un gruppo di poveri uomini e donne che galleggiano ammassati gli uni sugli altri in atroci gommoni o in assurdi barchini di legno.
E quando un salvataggio si conclude senza brutti incidenti, io cerco di farmi grande grande per accogliere tutte quelle persone, e mi dispiace non poter offrir loro altro che il mio duro ponte di acciaio, di non poter dare a ciascuno di loro un po’ più di spazio e di intimità, ma sono contenta quando penso che per loro rappresento un’oasi nel deserto, quando vedo che, sfiniti, si lasciano andare al sonno con la pace di un bambino che si sa al sicuro in un abbraccio. E che bello quando il mio ponte freme al suono dei canti e dei balli improvvisati per ringraziare di essere vivi, e come mi commuovo quando i bambini a bordo prendono i pennarelli e mi fanno il ritratto, tutta arancione e bianca e gialla, e mettono un arcobaleno sopra di me! A volte vorrei rallentare un po’ nel mio viaggio verso l’Italia per concedere loro ancora un po’ di questo tempo spensierato, prima che debbano affrontare ancora una volta la realtà. E che tristezza invece quando nel mio container rosso a prua vengono adagiati i sacchi bianchi con dentro i corpi di chi non ce l’ha fatta… in quel caso cerco di arrivare il più velocemente possibile a terra, perché so con quanta pena i miei ospiti hanno raccolto quelle vite spezzate.
Anche se il mio è un lavoro difficile, un lavoro che non dovrebbe neanche esistere e che è invece spesso criticato con leggerezza, io mi sento come un’ambulanza del mare, anche se mi mancano girofari e sirene (ma per mare di sirene ce ne sono già tante…). Adesso sono una nave felice, e sono orgogliosa di quello che i miei ospiti ed io facciamo: salviamo vite in mezzo al mare.
Testimonianza raccolta da Benedetta Collini, SAR team SOS MEDITERRANEE Italia