Testimone: Abdull’ha*, Sudan
Nel salvataggio del 28 aprile sono saliti a bordo uomini provenienti dal Sudan. Non parlano inglese e questa che segue è la testimonianza di uno di loro tradotta con l’aiuto di un suo amico.
Qualche informazione può risultare incompleta a causa scarsità di comunicazione nella lingua veicolare (inglese).
Il signore con cui parlo si chiama Abdull’ha e viene dal Sudan, precisamente dal Darfur. Quando gli chiedo l’età fa fatica a dirmela perchè inverte i numeri facendomi intendere che ha 83 anni. Sono molto stupita di come un uomo anziano abbia potuto affrontare un viaggio così difficile e pericoloso attraverso il deserto e poi il mare.
Ma sono rimasta molto più sbalordita quando ho capito che la sua vera età è 38 anni, mi pareva molto più verosimile che lui fosse vicino alla vecchiaia.
Lo osservo ed è un uomo consumato dalla fatica, con il volto segnato da profondi solchi, una bocca con pochi denti, una barba bianca e delle mani gonfie.
Gli chiedo di raccontarmi da dove viene, qualcosa del suo paese, del viaggio che ha fatto. Mi dice che è del Sudan, viene da Darfur e non ha altro da aggiungere. Poi si alza barcollante per andare al bagno e, nell’attesa che lui torni, il suo amico prende la parola. Anche lui è del Sudan, della zona del Darfur, ma nel suo paese non ci tornerà mai più, non c’è nulla per cui vivere, troppe persone muoiono, non c’è sicurezza, non c’è cibo, non c’è nulla in Sudan.
Ritorna Abdull’ha e si siede di fronte a me e iniziamo una semplice ma intensa conversazione, in cui lui ripete che in Sudan non si può vivere, è un paese dove non c’è vita per gli uomini e l’unica speranza è riuscire ad andare via. Mi dice :”Non c’è sicurezza per le donne e per i bambini,non si può camminare per strada, hai sempre paura che ci siano uomini armati che ti sparano o che ti portano via, e poi non c’è da mangiare e non c’è acqua. Per andare a prendere l’acqua si parte al mattino presto, si cammina tutta la giornata e si torna alla sera, per cinque litri d’acqua che devono bastare per tutta la famiglia”. Anche il cibo è poco, apre il palmo della mano per indicarmi che quella è la misura di una porzione di riso per il mattino e per la sera. Se si mangia di più si salta il pasto del giorno dopo.
Racconta che sono otto fratelli e tre sorelle. Gli domando come mai è partito solo lui, ma la risposta è già evidente: “Non c’erano soldi per tutti, ma qualcuno doveva partire. Non c’è vita in Sudan, prima o poi muori perché non c’è niente da mangiare o perché ti sparano. E’ meglio morire cercando di fuggire con la speranza di una vita migliore che morire in Sudan”.
E’ partito nel 2015 e dopo tre giorni di traversata nel deserto è arrivato in Egitto dove è rimasto un anno e ha lavorato come pulitore di scarpe per strada. Anche in Egitto la vita non era facile, se non sei egiziano non ti pagano dopo che hai lavorato o ti rubano i soldi, non c’era nessuna sicurezza per la propria vita. Così a maggio 2016 ha lasciato l’Egitto per arrivare in Libia con l’unico scopo di raggiungere l’Europa. Per raccogliere il denaro del viaggio lavorava al mercato, lo puliva e alla notte dormiva dentro. Però anche la vita in Libia è diventata sempre più difficile, i neri vengono derubati e picchiati, ma chi lavora al mercato viene lasciato stare.
Ha messo da parte i soldi per la traversata in barca ma aveva anche tanta paura del mare, poi ha pensato che non aveva altra scelta.
Mi dice con tristezza mista a speranza: “Ho lasciato il Sudan, l’Egitto e la Libia per vivere. Spero ora di trovare una vita migliore”.
(*) nome fittizio
Autrice: Francesca Vallarino Gancia
Foto: prima: Kenny Karpov, seconda: Francesca Vallarino Gancia
Editing: Natalia Lupi
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