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Testimone A.

A. viene dal Gambia. A soli diciannove anni ha dovuto affrontare più di quanto un giovane uomo della sua età avrebbe dovuto sopportare. Ci racconta di come, in Libia, sia caduto in una trappola di violenza, maltrattamenti, rapimenti e di come l’unico modo per salvarsi la vita sia stato saltare su un gommone e fuggire via mare.

Ho incontrato A. la scorsa domenica, di mattina, sul lato destro della nave, mentre la Aquarius stava entrando nel porto di Messina. Un ragazzo di 19 anni, del Gambia, aveva comunque un’esperienza da condividere. Mi ha detto “Nessun problema, prego si sieda”. Così ci siamo seduti su di una panca di legno e lui ha iniziato a raccontarmi i dettagli di tutto ciò che gli era accaduto in Libia.
A. non aveva intenzione di venire in Europa, voleva solo “viaggiare”, “scoprire” altri Paesi, non poteva immaginare che il suo viaggio lo avrebbe portato a bordo della nostra grande nave arancione.
In Gambia, aveva una propria attività come noleggiatore di biciclette per turisti ed una piccola agenzia di viaggi. “Avevo la mia attività, ero felice, vivevo bene”. E allora perché ha deciso di partire? “Sono partito perché un amico mi ha proposto di andare in Libia”, risponde.
“Ma lì sono caduto in trappola, Sono finito in mano ai trafficanti, che sono appoggiati dai nostri fratelli: Africani neri, che collaborano con i trafficanti arabi e guadagnano denaro da questo traffico di persone.” Dice con rabbia.
“Appena arrivato in Libia, sono stato gettato in prigione a Beni Ulid. In Libia, i neri, vengono rapiti continuamente, picchiati ed imprigionati. Poi, ci viene richiesto denaro e dobbiamo chiamare le nostre famiglie per dire di versare denaro su di un conto in Egitto. A me hanno chiesto 5000 dollari per essere rilasciato. Ma non avevo tutti questi soldi e non avevo modo di procurarmeli”. Si lamenta. Ora inizia la storia vera e propria.
“In prigione, se non paghiamo ci legano le mani con il fil di ferro e poi ci sottopongono a scariche elettriche. A me è capitato più volte (mostra una cicatrice sul polso). Lo fanno solo per convincerti a pagare, prima fanno passare la corrente elettrica e poi ti consegnano il telefono per chiamare i parenti”.

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“Ma ti rendi conto, ci sono persone della nostra gente che fanno affari con questi gangster. Persone del Ghana, della Nigeria e del Gambia, che lavorano per gli Arabi e fanno traffico di persone verso l’Italia. A Beni Ulid, alcune persone di colore ti avvicinano, ti dicono che sono prigionieri come te e poi ti dicono di andare con loro, a passare la notte in una casa, e tu ci vai perché non conosci nessun’altro e hai paura perché in Libia i neri vengono aggrediti per le strade”.
“Ma la mattina seguente vengono da te e ti chiedono di scrivere il tuo nome e il numero di telefono, per poterti contattare. E poi passano queste informazioni ai trafficanti”. A. desidera che io scriva tutto questo in modo dettagliato.

“Dopo un certo periodo di tempo, finalmente hanno raggiunto la somma di 1500 dinari (1000 euro). Ero riuscito a racimolare questi soldi e sono stato liberato dalla prigionia. Così, sono andato a Tripoli per cercare di rintracciare il mio amico; quello che mi aveva invitato ad andare in Libia, ma non ci sono riuscito. Alcune persone mi hanno detto che era morto e che era stato ucciso”, spiega.
“Non potevo restare a Tripoli. Dovevo partire. Perché? Perché nell’ultima settimana, a Tripoli, centinaia di neri sono stati uccisi. Non lo sai? Non leggi le notizie? 100 persone sono state uccise, gli è stato detto di abbandonare le aree della città dove abitavano, Grigaras e An Colombia. La scorsa settimana hanno avvisato tutte le persone di colore di andarsene, il venerdì. Penso sia stata la polizia a passare il comunicato a causa degli Asma boys (bande armate). Per gli Asma boys i neri rappresentano denaro. Ma quello che non posso credere è che la nostra gente, i neri, facciano affari con loro, persino li consigliano su come agire. Gli dicono che le nostre famiglie farebbero di tutto per pagare per noi. E così si prendono una percentuale. Ad esempio so che in una prigione a Zawirah le persone, per essere liberate, devono versare il denaro su un conto del Gambia”, rimarca ancora una volta.
“A questo punto, non avevo altra possibilità che fuggire in Europa. Così, ho preso il gommone a Sabratah. Mi hanno chiesto di pagare 1200 dinari (800 euro) per il viaggio, ma non avevo tutti quei soldi e così ho pagato solo 900 dinari (600 euro). Per raggiungere Sabratah da Tripoli, mi hanno messo nel bagagliaio di un’auto, poi siamo rimasti lì una settimana e poi non ricordo più nulla, mi rivedo solo sul barcone”.
“Puoi immaginare? Questa è la nostra gente che fa affari! Non avrei mai potuto immaginare che le persone potessero fare delle cose del genere, non ho mai pensato che fosse possibile, davvero! In Gambia ero felice, lavoravo nel turismo e viaggiavo. Parlo tre lingue ed ero solo curioso di scoprire nuovi posti e di andare a trovare il mio amico a Tripoli. Ma una volta lì, in Libia, mi sarei mangiato le mani con questo pensiero: Cosa ci sono andato a fare? Se lo avessi saputo non sarei mai arrivato fin qui”.

Prima di sbarcare e di salutarci, A. ha annotato sul mio blocco l’URL del sito web della sua attività in Gambia. In seguito, ho fatto una ricerca su Internet e ho trovato la pagina. Sulla homepage si vede una sua foto sorridente, su di una mountain bike. Era probabilmente di un anno fa, ma ormai una vita fa.
Quando la foto è stata scattata, A. non aveva la più pallida idea che avrebbe sperimentato da lì a poco il peggior viaggio di sempre, che si sarebbe concluso posando i piedi nudi in terra europea, avvolto in una coperta grigia, in una fredda mattina di gennaio 2017, nel porto siciliano di Messina.
I sogni infranti di A. mi hanno spezzato il cuore.

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Testo: Mathilde Auvillain

Traduzione: Stefano Ferri

Photo Credits: Anthony Jean/SOS MEDITERRANEE

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