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Aquarius, 23 Dicembre 2016

Testimoni vari*.

T. è sulla trentina. Non gli chiediamo l’età esatta per non interrompere la chiacchierata. Ci racconta: “Lavoravo come ingegnere in Algeria. Avevo un buon lavoro. Un giorno mi hanno sequestrato e portato in Libia. Mi hanno costretto a salire sulla barca. Non volevo salirci ma non ho avuto scelta. Credimi, non volevo venire in Europa, stavo bene in Algeria, voglio tornare al mio lavoro.”

Il suo non è l’unico ovvio caso di tratta umana. Le persone che salviamo ci raccontano molte di queste storie. I., dal Senegal, ha perso tutto. “Boko Haram ha ucciso mia madre, mio padre ed altri membri della mia famiglia. Vivevamo in un piccolo villaggio nel sud. Sono dovuto scappare. È così che ho incontrato quei contrabbandieri. Ci hanno fatto attraversare il deserto. Un sacco di persone sono morte, non avevano né acqua né cibo.” Una volta raggiunta la Libia, anche lui è stato portato in una prigione. “Un giorno mi hanno consegnato ad un tipo e mi hanno messo a lavorare in una fattoria. Non mi hanno pagato. Qualche mese dopo mi hanno portato in un spiaggia ed obbligato a salire su una barca.”

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Sulla Aquarius un collega ha parlato con un altro giovane salvato dal naufragio. “Sono in viaggio da tre anni. Sono andato in numerosi paesi per lavorare e poi dei trafficanti mi hanno portato in Libia. Non ho parlato con mia madre perché ho promesso di telefonarle solo una volta al sicuro. Non voglio che si preoccupi per me.” Quando F. è salito sullo Aquarius dopo essere stato salvato, i suoi vestiti erano zuppi di acqua salata e benzina, quindi sono stati portati via e gli è stata data una tuta d’esercitazione nuova ed asciutta. “Ma il numero di telefono di mia madre era nella tasca dei miei vecchi vestiti. Lo puoi trovare per favore?” ha chiesto. Alcuni hanno cominciato a cercare fra le buste dell’immondizia e l’hanno trovato in una di queste. L’unica cosa che collega questo giovane uomo a sua madre è un pezzo di carta con un numero di telefono. Un collega ha preso il foglietto con il numero, l’ha plastificato e glielo ha restituito. “La chiamerò quando sarò al sicuro a terra”.

Il nostro fotografo Kevin ha parlato con molti uomini provenienti dall’Africa dell’Ovest. Molte delle persone che abbiamo salvato sono stati costretti a lavorare come schiavi in Libia, scopre mentre parla con alcuni di questi sul ponte. “Alcuni mi hanno mostrato le ferite delle torture e me ne hanno parlato. Non si direbbe che abbiano vissuto delle cose del genere, quando li vedi sorridere e chiacchierare. Speriamo che adesso abbiano la possibilità di andare avanti e dimenticare la loro storia” dice Kevin. “Sul ponte ho incontrato un uomo alla fine del mio turno ed entrambi siamo rimasti a guardare verso sud. L’uomo mi ha detto: “Libia… non bene… Thank you! Merci!”. Abbiamo continuato a guardare il tramonto in silenzio. Niente più domande, niente più parole. “

(* nomi cambiati)

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Testo: Rene Schulthoff

Traduzione: Flavia Citrigno

Photo Credits: Kevin McElvaney/SOS MEDITERRANEE

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