Marie Rajablat, scrittrice, è imbarcata da ormai due settimane sull’Aquarius. Due settimane segnate da naufragi che hanno fatto delle vittime nel Mediterraneo e di cui l’Aquarius ha accolto alcuni dei sopravvissuti. Dopo i salvataggi del 14 e del 15 novembre, appena finito il turno di guardia sul ponte anteriore, Maria ha raggiunto la sua cabina e ha preso la sua penna per raccontare quello che aveva visto, sentito e vissuto a bordo.
AQUARIUS – mercoledì 16.11.16
“Terminate le operazioni di soccorso e i trasbordi, la Aquarius, stracolma, fa rotta verso l’Italia. Passo e ripasso sui ponti della nave, per vedere se va tutto bene. Riempire una bottiglia d’acqua per una persona, cercare la coperta di un’altra, dare continuamente informazioni a tutti su a che punto siamo delle nostre operazioni: tutto è un pretesto per condividere. Navigare con più di 400 persone estenuate, fiaccate da dolori e da ricordi terribili, richiede una grossa attività di cura, affinchè tutto vada bene e ciascuno dei marinai, dei soccorritori e dei medici possa fare il suo lavoro in serenità e condurre tutti a destinazione.
Moussa (*) é seduto con i suoi amici su uno dei cassoni del ponte di sinistra. In quelle circostanze ed in quelle condizioni, due giorni e due notti bastano perchè nascano dei legami: ” Vieni Mama, hai detto di essere la scrittrice di bordo. Vorrei che tu scrivessi la storia del mio amico Sila. Quando penso al mio amico Sila -pace all’anima sua- è terribile quello che gli è successo. Durante tutta la traversata, era stato lui ad incoraggiarmi a non perdere la speranza. Mi diceva: perchè Allah ci avrebbe condotto fino a qui per poi abbandonarci quando sa perchè siamo partiti. Sa che siamo partiti per aiutare le nostre famiglie a stare meglio. Se moriamo, tante altre vite sono messe in pericolo…Abbi fede amico mio. Allah è grande. Dobbiamo resistere, arriveremo…”
Moussa passa a descrivermi in che stato si trovavano le persone sedute intorno a lui nel barcone. Tutti avevano fame, freddo. La maggior parte aveva mal di mare perché il mare era grosso. Con il passare del tempo, alcune persone hanno iniziato a cedere e a scivolare sul fondo dell’imbarcazione. L’amico di Moussa era tra queste:” Nel barcone, mi faceva male la pancia ed anche a lui. Aveva bevuto dell’acqua e del gasolio. L’ho trattenuto fino alla fine, non volevo addormentarmi per non lasciarlo, per evitare che finisse sul fondo del barcone…”. Moussa tace per un lungo istante, poggia la testa contro la paratia della nave. Mi accorgo che stringe i denti ma le lacrime finiscono per scendere. Henri, il suo amico, distoglie lo sguardo. Piange anche lui. Moussa riprende il racconto: “Ha vomitato su di me, ha fatto i suoi bisogni su di me. Gli tenevo la mano perché avevamo paura. E ora lui non c’è più e io sono vivo…Capisci, la notte scorsa, mi sono svegliato di soprassalto. Credevo fossimo ancora su quella barca. Si ballava, per le onde, sul ponte. Quando mi sono guardato intorno mi ha fatto strano. Se chiudo gli occhi, vedo il mio amico. Ma se te tengo gli occhi aperti, lo vedo lo stesso.”
Henri, a sua volta, mi racconta :” E’ vero Mama, pensavamo di morire. Anche io ho avuto paura per mio fratello minore. Aveva inghiottito molto gasolio e dell’acqua salata. Non rispondeva più. Quando l’elicottero è venuto a prenderlo ieri sera, ho creduto di averlo perso. Ho creduto che fosse morto….Come avrei fatto a dirlo ai miei genitori…Grazie a Dio sta meglio..” Henri si chiude in se stesso e fissa l’orizzonte.
Brahim ascolta i più grandi, anche lui, gli occhi fissi nel vuoto, come se fosse ancora su quel barcone. Resterà così per delle ore. Non gli chiedo niente ma non lo perdo di vista. Quando torno da lui al calar della sera gli chiedo come sta: ” Ero sul barcone dove ci sono stati 99 morti. So che avete dei cadaveri qui sulla nave. Vorrei sapere se i miei amici sono qui o se sono rimasti in mare”. Con l’aiuto dei suoi vicini, mi fa una lista di 9 ragazzi. Mi descrive gli abiti che ciascuno indossava e loro eventuali segni distintivi. Dopo un controllo, nessuno di loro è a bordo. Sono, dunque, tutti annegati.
Sullo stesso barcone di Brahim c’era anche Zeineb. E’ l’unica donna che è sopravvissuta. Costretta con la forza a sposarsi qualche anno fa, Zeineb decide di fuggire dai maltrattamenti di suo marito. Parte con Fatiah, la sua amica, che invece vuole raggiungere suo marito, arrivato in Italia l’anno prima. All’improvviso, Zeineb mi racconta: ” Già alla partenza,alcuni dicevano che non potevamo partire con quella barca perché il motore faceva un rumore strano e c’era dell’acqua sul fondo. Li hanno picchiati e buttati dentro il barcone. Non si poteva tornare indietro. Siamo partiti di notte, verso mezzanotte o l’una. C’era molto vento, il livello dell’acqua saliva sempre di più. Le persone a bordo avevano paura. Ce n’erano alcune che piangevano, altre che invocavano Dio. Alcuni uomini dicevano di non muoversi per non far capovolgere la barca. Siamo rimasti così per molto tempo, due o tre ore, non so.
Poi le onde sono diventate più forti ed il barcone si è rovesciato. La maggior parte delle persone non sapeva nuotare. Il barcone era spinto dal vento. Io non so nuotare. Degli uomini hanno rigirato il barcone e ci sono saliti dentro ma impedivano agli altri di risalire. Le due donne che mi hai mostrato prima sulle fotografie erano riuscite a risalire ma gli uomini le hanno ributtate in mare. E’ per questo che sono annegate.
E quando sono riuscita a aggrapparmi alle cime, hanno spinto via anche noi. Allora è arrivata l’unità di soccorso e ci hanno lanciato dei giubbotti di salvataggio. Anche allora, gli uomini non volevano che prendessimo i giubbotti. Allora mi sono aggrappata alla schiena di un ragazzo che aveva un giubbotto e sono venuti a salvarmi”. Quando chiedo a Zeineb se ha paura, mi risponde sempre con lo stesso tono monocorde che no, non ha paura. Ma, come gli altri, continua a vedere i volti delle persone che annegano intorno a lei, che chiuda gli occhi o meno, li sente gridare le loro ultime parole…”Adesso non riesco più a guardare il mare”. E, effettivamente, non é mai uscita una sola volta dall’area di ricovero della nave da quando è arrivata.
Si potrebbe pensare che Mabie ne esca meglio degli altri.”Volevo lasciare il mio paese perché laggiù non trovavo materiale per fare le mie scarpe, le miei cinture e le mie borse. Lavoro i pellami. E’ il mio lavoro…” Ed eccolo enunciarmi tutti i paesi che ha attraversato alla ricerca di cuoio per le sue scarpe. Mambie è volubile, mi guarda negli occhi, mi considera un testimone, si esalta:” E’ importante, Mama, avere delle buone scarpe per stare in piedi ed andare dove uno vuole…”. Poi, all’improvviso, in mezzo a delle spiegazioni confuse sulla manifattura delle scarpe col tacco, si ferma ed il suo sguardo si perde lontano: ” Era dura la prigione…sono arrivato da Agadès a Tripoli….In Libia non amano i neri…ci sbattono in galera…ci sono rimasto sette mesi…sono riuscito a scappare…avevo paura del mare ma non avevo altra scelta…”. A chiunque si fermi a parlargli, Mambie racconta la sua storia di calzolaio, esattamente nello stesso ordine, con le stesse spiegazioni, negli stessi luoghi, poi si interrompe. Tra la prigione e la Aquarius, è come se non sia successo niente…
Moussa ha 19 anni. Viene dalla Costa d’Avorio. Henri ha 18 anni. Viene dal Camerun. Brahim ha 12 anni. Viene dal Senegal. Zeineb ha 19 anni. Viene dal Mali. Mambie ha 18 anni. Viene dal Gambia.
Stamattina, insieme a tutti i loro compatrioti, hanno, per la prima volta, toccato il suolo italiano.”
* I nomi di tutti quelli che hanno voluto dare una loro testimonianza, adulti e bambini, sono stati modificati. Ciascuno ha scelto il suo pseudonimo.
Testo: Marie Rajablat
Traduzione: Francesca Ciardiello
Photo Credits: Susanne Friedel/SOS MEDITERRANEE
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