Testimone Harun*
Aquarius, 07 Ottobre 2016
Ci sono 722 bambini, donne e uomini a bordo dell’Aquarius – tutti salvati durante una operazione di soccorso durata 7 ore. Tutti loro hanno trovato un posticino sui nostri ponti. Io vado qua e là con un mazzo di grandi sacchetti neri per la spazzatura. I migranti a bordo devono aiutare un po’ per mantenere pulita la nostra nave. Sul ponte anteriore qualcuno mi dice: “Hey aspetta, ti aiuto io.”
L’uomo si chiama Harun ed è eritreo. Ha trovato posto con altri eritrei sul ponte anteriore. Il barcone che abbiamo soccorso era occupato prevalentemente da donne, bambini e uomini provenienti dalla Eritrea – 683 in tutto.
“Chi sta sul ponte anteriore deve aiutare un po’ a tenere pulito”, dico a Harun. “Nessun problema”, risponde. “Glielo dirò io. Aiuteranno tutti. Dammi i sacchi per la spazzatura. Li distribuirò nelle diverse aree e dirò a tutti di mettere lì dentro i loro rifiuti”.
Harun ha circa 40 anni. “Vivevo ad Addis Abeba, in Etiopia. Viaggio da solo. Mia moglie e i miei due bambini sono lì” dice. “Spero di trovare un posto sicuro per vivere e lavorare in Europa, forse l’Italia, e spero che la mia famiglia possa raggiungermi presto”.
“Sono stato in Eritrea” dico ad Harun. Lui sgrana gli occhi. “Dove e quando?” mi chiede. “tanto tempo fa” dico, e rido. “È stato più d 20 anni fa. 1995. Ero nella tua capitale, Asmara con una squadra di medici e abbiamo lavorato in due ospedali. 1995”.
“Ahhhh. Io studiavo a quell’epoca” mi dice Harun. “Avevo quasi finito i miei studi in economia e management nel 1995.” “E poi?” Gli chiedo. “Poi ho lavorato, con una posizione manageriale. In una banca. Era una banca statale. Non ci crederai, ho lavorato lì per 16 anni senza stipendio. Pagavano soltanto qualcosa per il bus che dovevo prendere ogni giorno. 16 anni. Senza denaro.” Io non riesco a crederci.
“Non potevo più fare questa vita in Eritrea. Così ho deciso di lasciare il Paese con mia moglie e i bambini. Oltrepassare il confine era davvero pericoloso. Se ti scoprono, ti uccidono. Si spara molto, al confine tra Eritrea e Etiopia” dice, “ma ci siamo riusciti e abbiamo potuto raggiungere Addis. Ho fatto alcuni lavoretti lì, ma ancora niente soldi per nutrire i miei figli o dare loro un’istruzione.”
“Ma è sicura per voi l’Etiopia?” Voglio sapere. “Sì, non è questo il problema. Ma io ho deciso di cercare un altro lavoro. Dapprima sono andato in Sudan. Ma anche lì non c’era futuro. Così ho deciso di andare in Libia. E’ l’inferno, la Libia. Per prendere un camion per la Libia ho pagato migliaia di dollari . E dopo ho dovuto pagare ancora, soltanto per avere un posto in questo barcone”, dice Harun.
“Ho pagato 2200 dollari soltanto per questo. Tu sai quante persone c’erano su questo barcone?” chiede. Lui non lo sa, vuole saperlo veramente. “Eravate 720 a bordo” gli dico. “Cosa? 720 persone?” dice e posso vedere ancora la paura nei suoi grandi occhi.
Harun si è dovuto sedere all’interno della barca. C’erano 2 livelli sotto il ponte. “Era tutto così stretto. Alto forse 60 centimetri. Eravamo tutti seduti in fila. Non riuscivo a muovermi. Non ci saresti entrato”, dice a me con i miei 2 metri di altezza.
“Capisco soltanto adesso” dice Harun dopo un momento di silenzio, “capisco veramente soltanto adesso, che non avevamo alcuna possibilità su quel barcone. Cosa è che mi hai detto poco fa? Che dobbiamo viaggiare ancora due giorni per raggiungere l’Italia con questa grande nave? Oh mio Dio. Sarei morto se non aveste soccorso me e tutti noi. Grazie.”
Unisce le mani, come in preghiera.
Le storie che ho ascoltato questa sera sono quasi tutte uguali, la maggior parte delle persone salvate a bordo viene dall’Eritrea. Sono tutti gentili e pronti a collaborare.
C’è calma, l’atmosfera è piacevole e rilassata. Niente discussioni pesanti. Un pacifico gruppo di quasi 700 eritrei. I più giovani mi raccontano che hanno dovuto lasciare l’Eritrea perché altrimenti sarebbero stati costretti a entrare nell’esercito. Entrare nell’esercito in Eritrea significa rimanerci a vita.
* Nome modificato
Testo: René Schulthoff
Traduzione: Barbara Amodeo
Photo Credits: Fabian Mondl/SOS MEDITERRANEE
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