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(Una delle testimonianze raccolte sull’Aquarius durante l’ultimo salvataggio)

Josephine (7 anni) e Catherine (5 anni) corrono dappertutto sul ponte dell’Aquarius.

A loro piace ridere, far rumore, abbracciarsi, farsi sollevare per aria. Prendono la mano di tanti nuovi amici e saltellano al di sopra di tutti quei corpi distesi. Cercano di capire quel tanto che abbiamo detto loro in francese: riescono a scaldare il cuore sia dei migranti che di noi volontari, di qualsiasi età.

Nel frattempo, Dominique, la loro mamma, racconta poco per volta la propria storia.
Ho quattro figli. Posso dire cinque, perché sono incinta. Josephine e Catherine sono le più giovani. le due maggiori hanno un’età compresa tra i 16 e i 15 anni. All’età di 18 anni mi hanno fatto interrompere gli studi per sposare un uomo sulla sessantina che aveva già quattro mogli.

I miei suoceri hanno fatto sposare le mie figlie maggiori a uomini anziani. Un giorno spero di avere la forza e i mezzi per poterle aiutar”..

Dominique ha lasciato il primo marito e ha incontrato Patric, un uomo del tutto tranquillo e riflessivo, conosciuto in una casa-rifugio in Costa d’Avorio.

L’anno scorso, con le due piccole in braccio, è fuggita dopo che Patric era stato coinvolto in attività politiche rischiose.

Hanno pagato degli scafisti per assicurarsi un passaggio fino alla costa libica, ma gli scafisti li hanno abbandonati alla frontiera, così che sono stati subito rapiti e messi ai lavori forzati in una fattoria.

Dominique racconta: “Mi hanno picchiata ma, fortunatamente, non violentata come tante altre donne. Quando ci davano da mangiare, avevamo solo cinque minuti esatti: ci hanno portate nella città di Ben Ouali nel deserto, in una vecchia prigione. Per divertirsi organizzavano delle lotte fra uomini, zuffe che filmavano con i cellulari e nelle quali solo uno dei contendenti poteva uscirne vivo. Era il loro miglior passatempo. Uno degli uomini mi ha portata a casa perché facessi da governante: ho potuto portare con me le due ragazze. Poi sono scappata”.
E continua: “Siamo riusciti ad arrivare a Tripoli con l’aiuto di un Ciaddiano, ho dovuto lavorare per pagare il trasporto. Mio marito ci ha raggiunto più tardi, dopo che gli uomini più turbolenti avevano organizzato una sommossa. Il Ciaddiano era uno scafista: abbiamo dovuto lavorare da lui per due mesi perché non avevamo soldi. Ed era proprio lui che ci ha caricati sul gommone”.

Tutto quanto ha visto e vissuto in Libia, l’ha terrorizzata: “Rapimenti sono all’ordine del giorno, vengono continuamente richiesti dei riscatti, ci sono donne che vengono violentate davanti ai loro mariti, da otto o nove uomini. Ho visto persone lasciate morire nel momento in cui non servivano più a nulla nei campi o sessualmente”.

“Non si tratta di tentare d’impedire a tante persone di partire: quando si è sprofondati in un modo di vivere così terribile, si decide di partire anche a costo di morire in mare, sperando comunque in un qualche salvataggio da parte di navi di soccorso”.

Josephine e Catherine , due veri raggi di sole sulla nostra nave, non riescono ad esserlo sempre: “Ci sono notti in cui non riescono a dormire, si svegliano di soprassalto oppure piangono. Spero che finiranno con il dimenticare tutto ciò che hanno visto, sentito e vissuto”.

Quando Dominique conclude la sua storia, le due piccole si sono addormentate, una accucciata vicino al padre, l’altra con la testa appoggiata alla sorella.

“I miei figli sanno spiegarsi, sanno fare di conto. Mi piacerebbe che potessero un giorno andare a scuola e che potessero crescere in un posto dove le persone siano libere”.

Testo: Ruby Pratka

Traduzione: Ferruccio Frigerio

Foto: Yann Merlin

Nota: i nomi inseriti nel testo sono di fantasia, a maggior tutela delle persone coinvolte nella testimonianza.

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