“A bordo dell’Aquarius una comunità mobile di persone da tutto il mondo”

“A bordo dell’Aquarius una comunità mobile di persone da tutto il mondo”

Intervista al giornalista Giacomo Zandonini, a bordo della nave Aquarius con la troupe del regista cinese Ai Weiwei per le riprese del docufilm Human Flow.

Oltre 65 milioni di abitanti del pianeta costretti a fuggire dalla propria terra per scampare a guerre, persecuzioni e violenze di ogni tipo, costantemente in bilico fra scoramento e speranza. È questa l’umanità dipinta dal regista Ai Weiwei nel suo documentario Human Flow, presentato alla 74a Mostra del Cinema di Venezia.

Human Flow offre uno sguardo sul flusso umano indistinto che, partendo da Paesi e continenti diversi, unisce idealmente l’Asia all’Europa e l’Africa all’America, in un unico grande percorso comune di spostamenti per raggiungere la salvezza.

Il documentario è un susseguirsi di esperienze, di ricordi e sogni che, in parte, anche SOS MEDITERRANEE ha collaborato a documentare perché i salvataggi nelle acque del Mar Mediterraneo sono stati girati a bordo dell’Aquarius. Dunque Human Flow ci congiunge idealmente alle generazioni di popoli che stanno attraversando frontiere, confini e barriere e ci consente di entrare nel cuore del lavoro di SOS MEDITERRANEE poiché a bordo della Aquarius possiamo toccare dal vivo e senza filtro l’empatia, la dignità e il rispetto con cui il SAR team opera a servizio degli ultimi.

A collaborare alle riprese con la troupe cinese Giacomo Zandonini, giornalista freelance, che si occupa di migrazioni, traffico di esseri umani, politica e società nel Sahel. Collaboratore di La Repubblica, Internazionale, Left, Women Under Siege, Radio Vaticana, Radio 24, Nigrizia, Redattore Sociale, Zandonini ha lavorato in Algeria, Bangladesh, Grecia, Italia, Niger, Sri Lanka, Tunisia. Nel 2016 ha collaborato al documentario Wallah – Je te jure, prodotto da OIM Niger.

Abbiamo chiesto a Giacomo, in navigazione sull’Aquarius a cavallo tra settembre e ottobre 2016 per effettuare delle riprese per Human Flow, di raccontarci come si è sviluppata la sua esperienza professionale e personale.

Come nasce il progetto di Human Flow e come hai contribuito a realizzarlo?

Il coinvolgimento in Human Flow nasce quasi per caso. Ero a Catania nell’aprile 2016 e stavo lavorando a reportage su questioni legate alle migrazioni in Sicilia, quando ho ricevuto una segnalazione da un giornalista americano che mi suggeriva di contattare una troupe cinese che stava girando in Sicilia sulle migrazioni ed aveva bisogno di indicazioni per riprese di sbarchi.
Il 25 aprile del 2016 c’erano stati ben due sbarchi, uno a Pozzallo e l’altro ad Augusta: ho chiesto l’autorizzazione per l’ingresso nei due porti e filmare. Dunque ho trasmesso loro le immagini e così ci siamo conosciuti. Ho scoperto in seguito che era la troupe del regista cinese Ai Weiwei e che c’era molto da fare, il loro programma “di lavoro” era infatti molto esteso. Le riprese da due giorni son diventate un mese: siamo stati tutto questo tempo in giro per tutta la Sicilia e al termine ci siamo trasferiti in Grecia ad Idomeni, perché nel frattempo era giunta la notizia dello sgombero del campo. A Idomeni ci siamo ricongiunti con la troupe dell’Ai Weiwei Film Studios che nel frattempo era già presente nel campo e stava riprendendo. Al termine del secondo mese di lavoro in Grecia, mi hanno chiesto di rimanere per filmare delle operazioni di soccorso: in questo modo ho contattato SOS MEDITERRANEE Italia e ho avuto la possibilità di salire a bordo dell’Aquarius tra settembre ed ottobre 2016.

Il progetto era iniziato da alcuni mesi, nel febbraio 2016, io sono subentrato nell’aprile: ho visto dunque una buona parte del progetto esteso. A bordo dell’Aquarius ho lavorato con un cameraman del film e uno dei direttori della fotografia. Abbiamo scelto di filmare con cinque telecamere: per effettuare riprese aeree abbiamo utilizzato un drone, al quale abbiamo accostato due telecamere fisse e due mobili per seguire i movimenti anche in acqua durante i soccorsi.

Molte riprese sono state girate a bordo di Aquarius. Ricordi dei passaggi particolari, qualche aneddoto legato a quei momenti?

Le riprese a bordo dell’Aquarius sono state un’esperienza molto intensa: da un punto di vista sia cinematografico che giornalistico è stato un ambiente favorevole in cui io e i colleghi ci siamo trovati benissimo. Il fatto di realizzare un lavoro di approfondimento, di tipo documentaristico e non di news rapide ha favorito il fatto che abbiamo puntato sulla durata, e dunque sullo sviluppo delle operazioni, e non sugli update quotidiani. Abbiamo fatto almeno cinque giorni senza nessuna operazione in mare che sono stati utilissimi da un punto di vista tecnico per testare tutti gli strumenti e fare delle prove delle riprese in un contesto molto particolare.
È stato fonte di arricchimento anche conoscere meglio i membri dell’equipaggio, entrare in sintonia con loro, capire le motivazioni che li avevano spinti ad aiutare: tutto era una “storia” da raccontare.
Si è creata una intesa sia con i profughi che con lo staff di SOS MEDITERRANEE e quello di MSF, con molti siamo rimasti in contatto.

Ricordo tantissimi momenti, uno dei quali appare anche nel trailer del film: c’è stato un grosso salvataggio di eritrei il 3 ottobre, molto lungo, di diverse ore, dalla notte fino a buona parte della mattinata, una barca in legno in cui erano presenti oltre 700 persone e tutte sono state portate sane e salve a bordo dell’Aquarius. All’epoca era un record di persone stipate, poi tale “tetto” è stato purtroppo superato, visto che in altri sbarchi il numero si è addirittura raddoppiato: In quella occasione furono tratti tutti in salvo. Dopo mesi trascorsi in un centro di detenzione queste persone erano state imbarcate già debolissime, ed ora erano allo stremo delle forze. Una volta a bordo, rifocillati con barrette e generi alimentari, in uno slancio liberatorio hanno incominciato a gioire, cantare, esultare quasi e c’era anche un pastore che recitava inni religiosi ortodossi. Era anche una giornata simbolica, il 3 ottobre. Mentre a terra si tenevano cerimonie per il ricordo del naufragio tremendo del 2013 in cui persero la vita più di 360 eritrei, veder celebrare questo momento di salvezza dopo tantissimi mesi di viaggio, è stato molto emozionante.

Cosa “ti sei portato a casa” tu, cosa ti è rimasto dell’esperienza vissuta a bordo della nave di SOS MEDITERRANEE

Nel mio bagaglio personale “porto a casa” tutte le esperienze e le relazioni con le persone del soccorso, durante la navigazione si instaurano velocemente legami forti. Quello della navigazione è un contesto molto particolare, perché piccolo, non si hanno molti punti di “fuga” pur essendo l’Aquarius una nave molto comoda. L’Aquarius volendo offre anche momenti di solitudine, di confronto con se stessi, perché è una nave ampia, consente l’occasione per condivisioni forti, quasi empatiche con i membri dell’equipaggio.
In termini di riprese ci siamo sentiti molto coinvolti: una volta effettuato lo sbarco dei migranti a Vibo Valentia abbiamo chiesto a tutti di condividere qualcosa, brevi interventi, stati d’animo, ansie e speranze. Nel film potevamo dedicare poco a questo spaccato emotivo dell’equipaggio, ma in quel momento ci sembrava davvero importante che restasse a memoria dell’impegno di SOS MEDITERRANEE.

Altra cosa che mi son portato è stata l’importanza di essere lì: conoscevo dai racconti delle persone incontrate sia in Italia che nelle zone di transito in Africa, esperienze di chi passando dalla Libia prendeva il mare, ma è diverso rendersi conto in prima persona di cosa significhi. Non eravamo presenti durante tutta la traversata ma filmando il momento dell’approdo, comunque ci si fa una idea molto realistica di cosa vive chi è costretto ad affidarsi al mare per scappare da contesti di guerre.

Oltre 65 milioni di profughi che si stanno spostando dall’Afghanistan a Lampedusa, dalla Turchia al Kenya, dal Messico all’Iraq. Questo ci fa ben comprendere che siamo davanti ad un vero e proprio esodo. Che senso ha parlare di “frontiere aperte” e “frontiere chiuse”, muri e divisioni, quando mari e oceani potrebbero essere elementi d’unione e raccordo tra gli individui? La vita sull’Aquarius di SOS MEDITERRANEE rende appieno l’idea di quanto i salvataggi nelle acque superino tali frontiere fisiche e mentali.

Le operazioni di salvataggio da parte delle Ong, nonostante la fatica di trovar posto in questo Mediterraneo sempre più chiuso, hanno dato un enorme messaggio e contributo all’Europa e ad una parte della cittadinanza europea e della società civile: tra le stesse Ong chi si è ritirato, chi ha cambiato area di intervento, ogni Ong attiva sul Mediterraneo ha fatto delle scelte, comunque è importante esserci. Le frontiere esistono, per qualcuno sono una condizione “sine qua non” delle democrazie, per altri andrebbero completamente abbattute. Nella vita quotidiana dobbiamo credere ad un mondo senza frontiere: la realtà è che tali barriere ci sono, ci saranno, ci sono notevoli spinte per rafforzarle e hanno delle conseguenze negative sia sul lungo periodo che nel brevissimo periodo influenzando, anzi condizionando, la vita delle persone, possono avere delle conseguenze terribili sulle persone stesse.

Personalmente non do una valutazione negativa dell’idea di frontiera: il limite è quando diventa un elemento di chiusura, dovrebbe esser chiaro che è anche un elemento di identità che si può attraversare, si può toccare, si può in qualche modo valorizzare. A bordo della nave Aquarius si sperimenta una comunità mobile di persone da tutto il mondo: c’è il marinaio del Ghana e dalle Filippine, il medico di MSF e le infermiere dal Canada, i volontari che arrivavano da mezza Europa, troupe di giornalisti da tutto il mondo. È un piccolo mondo in cui si sperimenta qualcosa di diverso e in cui entrano e son parte integrante le persone soccorse in mare.

Assistiamo a movimenti imponenti di persone. Secondo te come si fronteggia tutto questo? I corridoi umanitari sono un inizio.

Viviamo in un mondo in cui ci sono grandi movimenti di popolazioni. Inevitabilmente ci sono grandi conflitti, grandi disuguaglianze e questo porta a grandi sofferenze e rischi per chi li attua. Il titolo del documentario è emblematico: siamo davanti ad un flusso umano e come tale va visto non come nemici o fonte di rischi, problemi. Tra le possibili soluzioni penso ci sia il trovare delle modalità di ingresso reali e non rischiose per le persone, quindi attraverso visti, accordi che consentono ai cittadini dei diversi Paesi di circolare più facilmente all’interno dei territori e sicuramente l’Europa e i Paesi ricchi in termini di Pil e non necessariamente di altro, devono cambiare visione e impedire che si continui a morire.

I corridoi umanitari sono il segnale con cui è possibile ricordare ai nostri Stati che facilmente si possono trovare soluzioni: oggi questi corridoi hanno dei numeri limitati e sono dedicati a persone vulnerabili per diversi motivi, ma dovrebbero essere rivolti anche a persone che non hanno problemi di salute, ma che “vogliono muoversi” o “devono muoversi”.  Anche a loro bisogna dare risposta.

Intervista: Francesca Di Folco

Foto: Isabelle Serro / SOS MEDITERRANEE

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