La Testimonianza: Ho attraversato il mare perché voglio veder crescere i miei nipoti

La Testimonianza: Ho attraversato il mare perché voglio veder crescere i miei nipoti

Mouna* ha 53 anni ed è nata a Damasco. È stata soccorsa il 31 luglio, mentre si trovava su una piccola barca di legno in avaria dall’equipaggio della Ocean Viking. Non appena ha messo piede sul ponte della nave, si è distinta per la gentilezza che irradiava. Mouna ha dovuto essere evacuata dalla Ocean Viking il 5 agosto perché aveva bisogno di essere urgentemente curata in un ospedale a terra. Mouna è malata, ha bisogno di un trapianto di fegato, ma prima di essere trasferita su una nave della Guardia costiera italiana e portata a Lampedusa, ha condiviso con noi la sua storia. 

“Non volevo lasciare Damasco. Due dei miei figli hanno lasciato la Siria a causa della guerra e sono fuggiti in Libia. Nel 2014 qualcuno ha scattato una foto alla mia figlia di 17 anni durante una manifestazione pacifica, volevano arrestarla. Non ci sono parole per descrivere quanto mia figlia sia importante per me. Così ho preso lei e il mio figlio più piccolo, che aveva 16 anni, e sono partita in aereo per l’Egitto. Dall’Egitto siamo stati portati clandestinamente in Libia. Eravamo lì quando è successo tutto, i disordini, la guerra. 

Mio marito è rimasto in Siria. Un giorno, un razzo ha distrutto la nostra casa a Damasco. Per fortuna mio marito è stato avvertito in tempo e non era lì. Dopo quell’episodio abbiamo deciso che anche mio marito sarebbe dovuto venire in Libia. Per qualche tempo siamo rimasti tutti lì, dove mia figlia si è sposata con un uomo siriano. Un giorno mio genero è stato derubato, mentre lavorava, da uomini armati come militari. Gli hanno sparato alla schiena. 

Poco dopo, mio marito e il mio figlio più piccolo sono stati rapiti. I rapitori hanno chiesto un riscatto. Ci hanno riportato mio figlio e mio marito, ma avreste dovuto vedere in che stato. Erano coperti di sangue. Ci siamo spaventati e siamo partiti per Tripoli, nascondendoci nel cuore della capitale. 

Mio marito ha dovuto sottoporsi a un intervento chirurgico e ha contratto un’infezione a causa dell’operazione. Quando lo ha scoperto, il suo fegato era già gravemente danneggiato e continuava a perdere conoscenza. In Libia non ci sono cure mediche adeguate, non ci sono quasi ospedali pubblici, solo cliniche private, così abbiamo venduto tutto ciò che restava della nostra casa in Siria per raccogliere i soldi necessari per mandare mio marito in ospedale, ma anche lì non hanno fatto nulla per lui: non lo hanno curato, lo hanno tenuto a malapena in vita e un giorno ci hanno detto semplicemente «riprendetevelo». Quindi lo abbiamo portato via e abbiamo cercato un altro ospedale che potesse prendersi cura di lui, ma nemmeno stavolta ha ricevuto cure adeguate: lo hanno semplicemente lasciato morire. In Libia non ci sono medicine, non c’è assistenza sanitaria. Abbiamo investito tutti i nostri soldi nel tentativo di ottenere assistenza, ma lo hanno lasciato morire. Abbiamo supplicato le Nazioni Unite, abbiamo raccontato loro tutto, abbiamo chiesto di poterlo curare in Egitto o in Tunisia, ma ci hanno risposto «no, restate in Libia». 

Se torno in Siria verrò arrestata all’aeroporto, perché i miei figli si stanno rifiutando di svolgere il servizio militare, mi arresterebbero. 

I miei figli in Libia hanno bambini piccoli che non dovrebbero attraversare il mare. Ma io sono malata, se non fossi partita sarei morta comunque. Così ho deciso di partire. Ho dato a un trafficante 2500 dollari per il mio primo tentativo di traversata, ma la Guardia Costiera libica ci ha fermato. Poi mi hanno messo in prigione. Quella prigione non riesco a descriverla. Volevano 200 dollari per farmi uscire. Quella prigione… 

I miei figli mi hanno tirato fuori da lì, ma io ero molto debole. Loro erano avviliti. Era difficile per loro vedermi in quello stato e non essere in grado di aiutarmi, ma non avevano abbastanza soldi per pagare vere cure mediche e non potevano fare nulla per fornirmi un aiuto. 

Ho deciso di riprovare ad attraversare il mare. I miei figli non volevano che andassi, ma io ho deciso, non volevo morire in Libia. Non c’è assistenza sanitaria lì, non ci sono servizi, non ci sono scuole per i bambini, non c’è istruzione. Non c’è sicurezza, in Libia aggrediscono tutti. Un giorno hanno lanciato una grossa pietra sulla nostra macchina e ci hanno rubato soldi, telefoni e macchina, ci hanno picchiato e ci hanno semplicemente lasciati per terra. 

Mi sono detta «adesso basta», dovevo ritentare la traversata. Ho pagato 1500 dollari ai trafficanti e ho detto loro che ero malata e avevo bisogno di partire presto. Mi hanno detto che saremmo partiti il giorno dopo, ma mi hanno fatto aspettare 16 giorni senza nessuna informazione. Poi ci hanno portato in spiaggia e quando la barca è arrivata, il motore è esploso. Abbiamo dovuto aspettare un altro giorno. 

I trafficanti ci avevano promesso che ci sarebbero stati due motori, un telefono satellitare, GPS, giubbotti di salvataggio. Non c’era nulla di tutto ciò. Ci hanno promesso che ci avrebbero dato tutto una volta in mare, ma continuavano a spingerci ed erano armati. Qualcuno deve essere stato troppo lento o in qualche modo deve aver fatto arrabbiare i trafficanti perché ha rovesciato dell’acqua per terra: gli hanno detto «per te niente acqua!». 

Dopo quattro ore in mare, il motore ha iniziato a surriscaldarsi, ha preso fuoco e mi sono bruciata la gamba. Siamo riusciti a spegnere il fuoco, un uomo sulla barca lo ha fatto funzionare ancora per un po’, ma ci faceva solo girare in tondo. La barca stava imbarcando acqua, e l’acqua si mischiava al carburante. Dopo 10 ore di navigazione abbiamo visto delle piattaforme petrolifere. Ci siamo messi a urlare e ad agitare le braccia. E poi siete arrivati con la vostra nave vicino a noi. Pensavamo che foste la Guardia Costiera libica, ma abbiamo detto: «stiamo morendo comunque, non abbiamo acqua, che vengano pure». Invece eravate voi. 

Ho dovuto provare ad attraversare il mare perché volevo vivere. Voglio vedere crescere i miei nipoti. Mi chiamano la loro ‘adorabile nonnina’. Quando vedete vostra madre, assicuratevi di abbracciarla e darle un bacio”. 

 

*Il nome è stato cambiato per proteggere l’anonimato. 

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